
Introduzione
Tracce di me
Apprezzo il suo abbraccio rassicurante soprattutto quando in auto, risalgo la grande strada panoramica dopo estenuanti ore trascorse nel caos del via vai cittadino.
Forse perché il suo doppio profilo rotondo e uguale riporta la mente al seno materno, forse perché è lì che ho respirato la prima volta, forse perché ne conosco i mille segreti e le storie nascoste in ogni suo anfratto, forse perché in molti suoi scorci ritrovo una piccola traccia di me prima che fossi io, quando arrivai, adesso e dopo.
Per questi motivi e per mille altri ancora la amo.
La prima forte emozione è quando, arrivata alla grande curva a gomito che funge da crocevia fra Fiesole e Maiano, so che di qua o di là che vada, posso trovare tracce di me.
A destra le cave.
Custodiscono la loro antica potenza sotto una folta coltre verde, splendida copertura per quei giganti immobili, rotondeggianti, un tempo brulli rilievi simili a singolari testoni calvi di antichi colossi, su cui il caldo sole estivo insisteva puntiglioso e dove l’inverno spaccava la tua pelle col suo gelido vento.
Qui un’antica parte di me ha visto un immenso cantiere a cielo aperto pulsare del lavoro frenetico di esperti scalpellini, intenti a forgiare i decori più belli per la grande Firenze.
Una piccola parte di me ha vissuto in una di quelle antiche case costruite una addossata all’altra, con i muri di pietra dentro e fuori, case basse, dalle pareti possenti e con enormi camini sopra i tetti grigi. Case raggruppate ai piedi di quei giganti che pur minacciosi per chi vi passi davanti in modo frettoloso, hanno rappresentato sicurezza e protezione per chi viveva del loro dono.
Quella pietra serena chiara, quasi cerulea, simile al colore del cielo e dura più dell’acciaio è l’essenza di questa città ed è anche l’essenza primordiale della mia vita.
Se mi inerpico per una di quelle stradine contorte, erte, sassose, che collegano come in un labirinto le innumerevoli cave, percepisco le voci sovrapposte nel tempo di chi ha condiviso la propria fragile vita con quella possente della pietra serena. Così il confabulare grave e lento, scandito dal battito ritmico degli antichi scalpelli, emerge e si immerge tra le preghiere e i lamenti dei tanti che insieme a una me ancora a venire, hanno cercato scampo alle bombe dentro il grembo di queste montagne. Poi a tratti si insinua qualche frase gioiosa, qualche risata, un grido di stupore o un profondo sospiro che testimoniano l’appagamento del turista curioso.
Ed eccomi finalmente materializzata in uno scatto recente che testimonia il mio passaggio da runner su questo suolo che mi conosce da sempre.
Con questa sicurezza che mi deriva dal sentirmi “a casa”, ritorno indietro per la via principale, riconoscendo i luoghi del mio antico passaggio: la fattoria mi investe del profumo di pane caldo, appena uscito dal forno, vedo le stanze della villa che porta il nome stesso del luogo, tirate a lucido e sento la fatica sbirciando attraverso le finestre di quella casetta tutta grigia, poco distante. Dentro abita una donna giovane, incinta, mentre la guardo, culla un bambino. Sento suonare una chitarra in sottofondo e tutto è familiare.
Poi, sotto lo sguardo vigile degli avi di pietra, ritorno a quella grande curva del regresso e risalgo verso una me più recente ma ancora a venire.
Vista da qui la città di Firenze se ne sta docilmente acquattata ai piedi di questa collina evidenziando i suoi tesori più belli: le chiese, i palazzi, il verde dei parchi, l’azzurro dell’Arno. Dall’alto delle finestre di quella grande villa risorta dalle povere casette dei Ferrucci, posso godere di questo panorama mozzafiato spaziando da est a ovest e salutando di fronte piazzale Michelangelo e San Miniato al Monte.
In primo piano grandi giardini e ville protette da alti cancelli, nuova veste per antichi campi costellati di viti e di olivi patrimonio passato di nobili e di ricchi stranieri dove la me bambina scorrazzava felice nei grandi spazi aperti.
Da quassù osservo il tram silenzioso che affronta la strada in salita, subito sorpassato da un curioso mezzo che spicca sulla strada col suo verde sgargiante e si trascina su sorreggendosi a doppie pulegge. Ma basta un attimo e ritrovo me stessa sopra un autobus sovraffollato che sponsorizza, sulla lucente carrozzeria vestiti, profumi e belletti e che grazie a un motore potente e rumoreggiante, mi conduce in un battibaleno alla piazza.
Ecco il cuore, la parte più antica che pur mantenendo intatti i suoi monumenti più belli ha sopportato nel tempo mille cambiamenti.
La sua ampiezza che appare improvvisa allo sbocco della strada in salita, cattura la mia meraviglia.
Meraviglia che cresce nel riscoprire intatto il lastricato di pietra serena che sale fino al punto più alto del colle e continua con un’ardita scalinata fino al convento dei frati. Mi sporgo, ma rimango seminascosta da una colonna del porticato, da lì ammiro una giovane sposa in abito bianco che ha qualcosa di me nel suo viso…
Le anguste cellette dei frati rimangono eterne nella loro modestia e si confondono assieme alla semplice chiesa, nel verdeggiare della natura.
Nel bosco di querce e cipressi proprio là sotto, percepisco l’odore di terra e di muschio che preesisteva a me e ancora mi accoglie.
Ritorno correndo giù in piazza da dove, alzando lo sguardo incontro la chiesa più antica: Santa Maria Primerana col suo pronao dal tetto spiovente, con le colonne perfette per giocarci ai quattro cantoni. La chiesetta ha un’unica stanza dove ti accoglie Giovanni da Sangallo che ti mostra pacato, i delicati bassorilievi lucidi di scuola robbiana. Accanto la canonica, spesso sede di mostre, già luogo di giochi e di svago dopo i compiti a casa.
E ancora continuo il cammino salendo e ritrovo ai miei piedi Firenze. La vista è anche da questo versante stupenda, ma ancora più strabiliante è l’approdo al termine della salita.
Lì sei accolto da un soffice prato, inondato di luce. La scuola media è di fronte, pensata da Michelucci, l’architetto degli spazi aperti. L’edificio respira quell’aria sana e frizzante che soffia da Monte Ceceri a pieni polmoni per accogliere al meglio i suoi allievi.
Attraverso e riprendo la via che di nuovo e al contrario mi porta alle cave. Se ascolto, sento i ragazzi cianciare, la voce affaticata dei tanti docenti e la mia.
Scendendo per la strada contorta, inondata di polvere, costellata di sassi e radici, rivivo al presente le traversie e gli affanni delle antiche parti di me e apprezzo appieno il presente.
Ritorno alla curva di snodo e adesso riscendo.
La vita chiassosa e frenetica della città mi risucchia facendomi doni allettanti, abbagliandomi con mille promesse.
Talvolta soccombo impotente o incosciente ma sempre ritorno su questa collina dove vivo il presente.
L’altra io a venire la vedo solamente qua, sulla collina.
I.
ANTONIO DUCCI E LE CAVE
Il caldo sole estivo insiste puntiglioso sui rotondeggianti, brulli rilievi, singolari testoni calvi di antichi giganti.
Qua e là noti occhi sbarrati, bocche spalancate pronte a ingoiarti, a risucchiare la tua fragile entità spaventata.
Altre fauci, poco più in là, sembrano invece implorare il tuo aiuto, testimoniando nel contorno scomposto delle durissime labbra, il dolore per le profonde ferite. Addentrandoti in questo paesaggio lunare percepisci sempre più chiaramente il battito ritmico degli scalpelli che duetta con l’assordante frinire delle cicale, il tutto interrotto talvolta dal fragore di potenti “grancasse” esplose negli spaventosi stomaci dei giganteschi personaggi che ti circondano.
L’ immenso cantiere a cielo aperto è in pieno fermento: sono tante le commissioni dalla città di Firenze perché si sa, la pietra serena chiara, quasi cerulea, simile al colore del cielo e dura più dell’acciaio che si estrae da queste parti, è assai ricercata fin dagli antichi Etruschi. E poi dai Romani, ma soprattutto gli uomini del Rinascimento si sono accorti di quanto preziosa sia questa pietra fiesolana.
Ed ora eccoci qua, in pieno 1865. Questi uomini dal fisico asciutto, dai volti scavati e irti di barbe incolte, non si curano del viandante che li fissa ammirato, le loro mani callose e forti seguono il pensiero nella propria missione, aiutando così blocchi informi a trasformarsi in finissimi oggetti lavorati. Operai fieri di essere figli della neonata Italia, fieri di rendere splendida ed ancora più unica la già bella città che sta laggiù ai loro piedi e che è appena diventata CAPITALE! Lavoratori tutti compresi in un’arte la cui esecuzione non segue regole scritte, ma si affida al canovaccio del ricordo e all’estro del singolo individuo.
Antonio Ducci è lì, accovacciato sul terreno riarso a smussare i fianchi taglienti di un futuro lavabo. Per ora quella pietra raccoglie soltanto il suo sudore, la fatica è palese: le mascelle strette, i nervi tirati, i muscoli delle braccia pulsano per lo sforzo evidente, ma l’uomo è appagato, si vede: lui e Clementina potranno mangiare stasera! Ẻ stato fortunato Antonio, dopo il cantiere per la strada nuova, venticinque anni fa- quando era ancora un ragazzo- nessuno lo aveva più cercato per lavorare la pietra. Da semplice pigionale si era dovuto adattare a tutto: garzone del macellaio, manovale, bracciante, aveva aiutato le trecciaiole… Tutti lavoretti saltuari, tutti incarichi che gli erano stati affidati per pietà perché lui è sempre stato uno fra gli ultimi, uno che per fame avrebbe anche potuto rubare, allora meglio tenerlo buono con un boccone ogni tanto e starne a debita distanza! Eppure Antonio è una brava persona: nato e vissuto nel popolo della Cattedrale, suddito remissivo e buon cristiano, ma purtroppo si sa che la stereotipia fa di ogni erba un fascio e i pigionali son tutti ladri!
Antonio è un ometto piccolo magrissimo, il volto dalle guance scavate che mettono in risalto il naso gibboso, proteso su labbra fini e screpolate, spesso socchiuse in un vago, bonario sorriso che svela la quasi totale mancanza di denti. Nonostante la vita dura che sta conducendo, è sano e forte e ha messo su famiglia già da qualche anno. La moglie l’ha incontrata a Lamporecchio, in uno dei suoi giri per trovar lavoro e adesso vivono insieme in una modestissima casupola lassù proprio vicino al Seminario. Hanno passato mesi duri i due sposi, paghi solo del loro amore e senza un soldo in tasca, ma adesso la sorte sta cambiando, finalmente alle cave c’è bisogno anche di Antonio, finalmente si costruisce ovunque: ville, palazzi, strade, la pietra serena ha ritrovato il suo Rinascimento.
Antonio e Clementina pensano finalmente a un figlio…
II.
CLEMENTINA
La donna di Antonio è una creatura piccolina, mora, con due occhioni dolci e scuri che quando li incroci brillano lucidissimi e sembrano leggerti dentro. Ḗ una persona forte e tenace Clementina che non solo si occupa delle faccende domestiche, ma sa intrecciare mirabilmente la paglia, ricavando così da questa sua abilità, qualche soldo per la famiglia. Certo la casa che i due sposi abitano è davvero minuscola, umida, buia. Clementina fa fatica a mantenere pulito quel pavimento fatto di lastroni di pietra sconnessi e quei muri neri del fumo di un focolare senza tiraggio; la credenza e il tavolo traballanti e mangiati dai tarli non migliorano nemmeno se costellati dei bianchi trinati che Clementina confeziona con le sue mani. Sì, perché lei è una donna ambiziosa, che ama le cose belle, eleganti, pulite, adora i trinati, i Sangallo, le stoffe lucide e fruscianti che indossano alcune signore; la sua condizione le sta stretta e più volte ha confidato alle vicine, con le quali trascorre gran parte del pomeriggio lavorando e cianciando nel cortiletto davanti casa, che o il suo primo bambino nascerà in una casa migliore, o sarà meglio rinunciare alla maternità.
Ma adesso che Antonio ha un lavoro stabile (almeno per diversi mesi) potrebbe essere arrivato il momento della svolta: un erede in una nuova casa…. I due coniugi ne discutono ogni sera l’uno davanti all’altra con i gomiti appoggiati a quella tavola malferma, l’uno convince l’altra di uguali convincimenti:
«Con tutti questi progetti per Firenze capitale, di pietra ce ne vorrà tanta, hai visto quanti palazzi hanno progettato? Anche qui a Fiesole pare che ne faranno un sacco e son tutta gente ricca, che non bada a spese, che ama questo nostro macigno, sanno apprezzare i nostri oggetti. Chissà quanto lavoro ci sarà!»
«Sì e poi hai visto quanti stranieri si avventurano quassù, come si invaghiscono dei nostri ventagli, dei cappellini, delle ciabatte intrecciate con la paglia!»
«Già, dobbiamo approfittare di questa fortuna, se non spicchiamo il volo adesso, quando lo dovremmo fare?»
Così, riflessione dopo riflessione, una sera di un settembre piacevolmente tiepido, Antonio svela a Clementina che laggiù, proprio dalle parti dove lui fatica ogni giorno, a Maiano, c’è una casetta libera, pulita e accogliente proprietà del suo principale che gliela affitta per una cifra ragionevole. Sono euforici i due sposi, felici come mai, in capo a poche settimane faranno ingresso in tre in quella nuova casa: qualcuno nel pancione sta bussando.
La nuova residenza è gradita a Clementina che osserva quell’ambiente sconosciuto con minuziosa attenzione. La sua casa è in mezzo a poche altre, con i muri di pietra dentro e fuori, case basse, dalle pareti possenti e con enormi camini sopra i tetti grigi. Sono tutte lì, raggruppate ai piedi di quei giganti straziati, abusati, minacciosi per chi non li conosce bene, ma immensamente buoni e protettivi per chi campa del loro stesso corpo. Clementina ama osservare l’immensità del paesaggio che la sovrasta e incornicia, soprattutto la notte, quando la luna fa brillare le testone brulle di quei fantastici colossi e per un gioco di luci ed ombre, il satellite infonde ad ogni gigante una diversa identità: il piangente, il sorridente, il corrucciato, quello arrabbiato nero, quello dormiente. Figure magiche che rassicurano la donna e la nuova vita che ha dentro.
Intanto Antonio lavora alacremente spronato dalla sua fresca condizione di futuro padre, elettrizzato dalle notizie che arrivano dalla nuova Firenze.
Così passano i mesi, la stagione invernale avanza; giunge notizia che il re si è ormai insediato in città con tutto il parlamento e che i lavori di ammodernamento fremono ovunque. C’è un certo Poggi, un architetto esperto, un genio che sta ridisegnando tutta Firenze. Che emozione, che tempi belli si stanno vivendo! Anche Antonio, semplice pigionale fiesolano, si sente parte attiva del progetto e ad ogni colpo di scalpello pensa orgoglioso a quanto sia importante il suo operato. In pieno giorno le cave, roventi fino allo scorso autunno, sono ora spazzate da un vento gelido, è facile cadere, scivolare su quel pietrisco mescolato al fango delle stradine ripide, le mani fanno male, ai calli si sommano i geloni, ma non fa niente, la vita avanza fiera.
E fieramente si torna ai giorni belli pieni di luce e di tepore, caratteristici di quando da queste parti la primavera cede il passo all’estate., l’Italia si arricchisce del Veneto e il grande evento è sottolineato dall’ imponenza di Dante che svetta da pochi giorni in piazza santa Croce.
Anche nella famiglia Ducci, nello stesso momento, si vive un grande e lieto evento: nasce Sestilia, la primogenita adorata.
III.
SESTILIA
La bimba cresce sana: ha avuto la fortuna di nascere d’estate così ha potuto fortificarsi grazie al caldo sole, all’aria aperta; vederla è una gioia: con le gotine rosse e gli occhioni scuri come la mamma, che sprizzano allegria, col sorriso dolce del babbo.
I due genitori vivono in uno stato di grazia e poco importa se intorno il mondo freme…
Firenze spende e spande per rinnovare la sua immagine antica ed obbliga i cittadini a tasse esose. la reazione ironica, irriverente e arguta dei lunari e di qualche rivista ha un amaro sapore per i cittadini che a un tratto si sentono costretti a fare da pedine di un gioco le cui regole sfuggono ai più.
Tuttavia lassù in quel piccolo borgo incastonato nel macigno, si sente solo il bello dell’intero cambiamento. Dicono che la capitale sia tutta un cantiere, che hanno abbattuto il ghetto, allargato le strade che sono diventate grandi viali, che il duomo ha una nuova facciata tutta di marmo; si parla di un vasto parco per il divertimento che sta per sorgere sul nuovissimo Viale dei Colli, si vocifera dell’insediamento di una fabbrica dove vien fatta un’acqua miracolosa, un elisir di petali di rose che profuma la pelle e la rende radiosa.
Clementina fantastica: quanto le piacerebbe passeggiare in quel mondo fatato, cospargersi con quell’essenza prodigiosa! Ma intanto intreccia pantofole di paglia mentre aspetta il suo secondo figlio…
Ed è così che un anno e mezzo dopo la gioia per Sestilia, arriva Laura ad allargare la famiglia Ducci. Fa freddo quel giorno, febbraio è un mese avverso, pericoloso per chi decide di affacciarsi alla vita, ma Laura ce la fa perché la tempra è forte, le cure amorevoli e continue.
La comunità di Maiano ammira molto questa famigliola felice che si amalgama perfettamente alla vita del borgo. Antonio è quasi sempre in cava, assieme agli altri uomini, Clementina condivide con le donne le chiacchiere, i pettegolezzi, i piccoli problemi quotidiani e intanto culla la piccolina mentre l’altra gioca assieme a un gruppo fitto di bambini; spesso lascia la nuova nata nella culla di legno e intesse oggetti con la paglia che saranno ammirati ed acquistati dalle signore che da Firenze saliranno in carrozza fino alla piazza del paese. Loro invece che la carrozza non ce l’hanno e si recano in piazza soltanto per la spesa, o per una funzione solenne dentro il Duomo, oppure perché si tiene il mercato del bestiame, percorrono una straduccia dissestata, erta, tortuosa che ogni volta ti manca il fiato per arrivare in cima, dove da Monte Ceceri sbuchi a Borgunto oppure in piazza Umberto. Sono persone semplici quelle del borgo di Maiano, che guardano con saggia serenità la società che sta velocemente cambiando, sperando in un futuro migliore per i propri figli.
Ma proprio quando tutto sembra filare per il verso giusto, quando il temuto inverno se n’è andato e ogni timore per la salute delle figlie è fugato, quando l’estate irrompe luminosissima e calda in quel giugno del ’69, Sestilia si ammala, la dissenteria la divora, nessuna cura l’aiuta e in breve tempo muore. L’inenarrabile dolore di mamma Clementina e babbo Antonio riempie ogni anfratto delle cave ed ogni pietra si offre come muro del pianto. La piccola comunità si stringe forte intorno alla famiglia ferita e la consola.
IV.
ROMOLO E LAURA
Intanto nella città e nel paese intorno, la vita avanza: laggiù, ai piedi dei grandi giganti di pietra è tutto un brulicare di gente in cerca di nuove suggestioni. Li vedi a piedi, in carrozza, sui lungarni o lungo i nuovi ariosi viali. Li puoi incontrare nelle viuzze strette scampate al gran rinnovamento. Ẻ gente che alloggia perlopiù in grandi alberghi ricavati da lussuosi palazzi, in Centro; frequentano i teatri, i caffè, le birrerie che in loro onore offrono prodotti costosi ed esclusivi. Sono i nuovi invasori inglesi, americani, svizzeri, altezzosi e supponenti, non amano certo mescolarsi ai locali che trovano sporchi e buffi con quella “c” aspirata!
Molti hanno comprato ville e castelli proprio sulla collina fiesolana ed hanno assunto casieri, camerieri, giardinieri e balie per le loro ricche famiglie. Ẻ così che a Maiano la comunità si assottiglia: è allettante andare a vivere nelle belle dimore che gli stranieri offrono in cambio di un lavoro sicuramente meno stressante di quello della cava …
Ma la famiglia Ducci no, non se ne va da quel borgo che rappresenta tutto il suo mondo, il bene e il male, gioie, dolori, risate e pianti. Antonio e Clementina straziati, hanno il cuore impietrito come quei giganti grigi che li hanno accolti, così decidono di rimanere immobili sotto lo stesso cielo.
E gli anni passano: i Garibaldini sbrecciano Porta Pia, la capitale si trasferisce a Roma, l’Italia è fatta per intero finalmente! Firenze indebitata, perde velocemente il suo prestigio.
A Fiesole si sente sempre più parlare inglese oppure un italiano strano, becero, imperfetto che fa sorridere chi la lingua italiana se la porta nel sangue e ne va fiero.
La piccola comunità degli scalpellini di Maiano continua risoluta il suo percorso fra nuovi matrimoni, nascite e morti. Si consolidano le amicizie fra le famiglie, sbocciano nuovi amori che appannano i dolori del passato.
La famiglia Bonanni è molto amica dei Ducci: Pietro ha gli stessi anni di Antonio ed ha due figli maschi, tutti lavoratori della pietra. Dei due Romolo, il nato nel ’70, ha un carattere forte, caparbio volitivo; è un bel ragazzo muscoloso che piace a tante, ma lui sfugge, si vuole divertire, ama la libertà e l’indipendenza.
Anche Laura, figlia di Antonio e Clementina, è un poco innamorata di quell’affascinante giovanotto, ma è troppo presa dai problemi di famiglia: il babbo anziano non lavora quasi più, la mamma con la paglia guadagna pochi spiccioli e poi, dopo la morte di Sestilia, non si è più ripresa pienamente, è sempre triste e silenziosa, il marito ha addirittura chiamato a Maiano la sorella zitella di Clementina, Fortunata, le ha procurato un lavoro come domestica presso la famiglia di un ricco signore inglese. La donna vive nella loro stessa casa, così può tener compagnia a Clementina sostenerla, distrarla.
Laura ogni mattina percorre quella stradina stretta, irta e sassosa che a un certo punto gira con una curva a gomito a sinistra, dolcemente scende per Doccia, poco più in basso dell’imponente convento e la conduce in poco tempo alla villa di certi signori svizzeri che abitano poco sotto la piazza, accanto a villa Medici. Lì svolge il lavoro di guardarobiera.
Romolo la vede ogni giorno passare e ripassare lì vicino al luogo dove con tutta la sua forza e il genio innato, scalpella la pietra nelle forme più disparate e belle. ogni giorno il solito saluto frettoloso, il solito sorriso.
Finché fra i due sboccia l’amore.
La famiglia Ducci e quella di Pietro Bonanni vedono di buon occhio quel fidanzamento fra i due ragazzi, i giovani si conoscono fin da bambini, i due nuclei familiari condividono la stessa condizione e si stimano da sempre. Romolo ha avuto anche la fortuna di non dover prestare servizio militare perché il suo nome, presente nella lista della leva del comune di Fiesole, non è stato estratto: davvero una bella cosa, se si pensa che altrimenti avrebbe potuto assentarsi per anni dalle sue amate cave e dai suoi affetti per andare a vivere in chissà quale lontana caserma!
Il matrimonio potrà farsi a breve.
Ma come spesso accade alla famiglia Ducci, accanto alla gioia c’è sempre un fatto triste, un dolore: Fortunata, la zia da poco accolta sotto lo stesso tetto come presenza salvifica, in poco tempo muore, portata via da una feroce epidemia di tifo scoppiata proprio in quella maledetta estate del 1891 e lascia nello sconforto la famiglia intera.
Intanto alle cave la comunità comincia a risentire dell’evoluzione politica della neonata Italia: Crispi ha inasprito gli animi di tutti col suo pugno di ferro che penalizza i deboli, col suo colonialismo folle e senza senso. Anche a Maiano arrivano notizie di scioperi, di repressioni cruente della lotta operaia contro lo sfruttamento. Anche gli scalpellini si organizzano in forze reclamando il giusto riconoscimento del lavoro che svolgono con indiscutibile perizia. Non è più l’ora di essere utilizzati senza paga per “servizi di utilità sociale”, non è più l’ora dello sfruttamento. Anche a Maiano si accoglie con un sospiro di sollievo l’arrivo di Giolitti, un uomo giusto, uno che capisce i problemi degli operai e di cui ci si può fidare, speranza ultima di un popolo operaio intero. Ma dura poco l’ossigeno, La dura mano di Crispi si riafferma e il malumore avanza. Sono anni duri, complessi quelli che chiudono l’’800, in Italia, a Firenze, a Fiesole e a Maiano. Qui nel ’94 muore Antonio, mentre Romolo entra in famiglia sposando di lì a poco Laura, la ragazza che ama da sempre. Intanto qualche cava chiude per mancate commesse: il progresso non ha più necessità della mano esperta dello scalpellino perché la meccanica avanza.
La nuova famiglia si forma attorno a nonna Clementina che silenziosamente ha riposto i dolori in un anfratto nascosto del cuore ed è già pronta ad accogliere con gioia i nipotini.
V.
MORTE DI LAURA
Nell’arco di sei anni Laura e Romolo metteranno al mondo tre figli: Emma, Fiammetta e Mario. Col maschio s’inaugura il nuovo secolo: arriva il 1900, quando la Belle Époque è in pieno svolgimento, quando i ricchi stranieri esibiscono sfacciatamente un benessere utopico, solo sognato da gli umili operai di Maiano. Nella cava si continua la vita di sempre: lavorare per vivere, vivere per lavorare, il vero lusso è avere una famiglia con tanti figli sani e mantenere le forze per garantire loro un degno domani. La vita dei signori ti pare una novella, la descrizione fantastica di un mondo incantato, un’esagerazione assurda del destino. Ascolti con stupore le descrizioni di chi frequenta le loro sontuose dimore, raccogli e trattieni ogni notizia.
Il tempo adesso corre impazzito a bordo di tram che sfidano le salite più dure mentre le prime automobili rumorose e traballanti sfidano le lente ma sicure carrozze a cavalli.
Romolo, assecondando l’onda del progresso, va in cerca di diversivi e svaghi.
Da poco a Firenze hanno aperto l’Edison, un cinema in piazza Vittorio. lui non riesce a resistere a questo entusiasmante svago che ti trascina in mondi sconosciuti e ti sorprende ogni istante con effetti speciali; ci va più volte, spendendo la preziosa, misera paga.
E non sta nella pelle quando viene a sapere che in Centro hanno esposto la nuova vetturetta nata proprio a Firenze, la Florentia appunto e ne vagheggia addirittura un utopico acquisto.
Quando Laura viene a saperlo, disapprova sdegnata pur sapendo che lui non ascolterà una parola delle sue ragioni, così soffre in silenzio sperando che quel suo stravagante marito non compia qualche “colpo di testa” che getterebbe tutta la famiglia sul lastrico.
Spesso Romolo scende in città perché ama aggirarsi con curiosità morbosa nei “rioni neri” di Firenze, prediligendo San Frediano, il più povero, disagiato, sordido rione di tutta la città. Covo di anarchici irriducibili, inattaccabili dal crescente consenso al Socialismo che avanza ovunque; ambiente etichettato come “covo di malviventi”, dove la maggior parte dei residenti è stata ammonita dalla Polizia, o ha comunque trascorsi di pendenze penali. In bettole seminascoste dall’ombra di costruzioni fatiscenti, ai bordi di minuscoli vicoli maleodoranti, Romolo si sofferma volentieri per un bicchier di vino o per una partitina a carte. Chiacchierando con quegli occasionali compagni di bevuta, l’uomo viene facilmente a conoscenza di mille curiosità che lo intrigano molto per quel sapore di misfatto, di “sporco” che detengono: il furto ai danni di una ricca signora in via Luigi Anichini, quel ladro che ha colpito un commerciante di stoffe che col barroccio transitava verso piazza Santo Spirito, l’omicidio di un innocente da parte di un soldato; il progetto del Comune per rinnovare tutto quel quartiere abbattendo le catapecchie e costruendo nuove abitazioni. Quest’ultima notizia lo rende particolarmente interessato: se per davvero costruiranno tanto, forse troverà lavoro nel suo ramo, la pietra. Chissà, per ora tuttavia tutto rimane un sogno vago.
Quando ritorna, spesso con le gambe malferme e l’alito che sa di vino, Romolo se ne va a letto dimenticando Laura e i suoi figli.
Intanto nelle cave il lavoro si fa sempre meno febbrile, certi padroni chiudono, altri licenziano parte cospicua del personale; si sente già parlare di “rimboschimento” perché tanto il destino della pietra d Maiano è di non essere più l’eletta, la migliore perché scolpita a mano, il progresso premia le macchine precise e svelte, generatrici di profitto per grandi imprenditori già straricchi.
Ci sono dunque giorni d’ozio, di noia che Romolo riempie con qualche avventuretta, a zonzo nel paese. Intanto Laura si affanna nel suo lavoro di guardarobiera. La donna è triste, delusa da quell’uomo che ama ancora tanto, ma che la lascia sempre sola, che fa il galletto con le giovani straniere, che non somiglia per niente a quel padre amorevole e premuroso che era stato per lei Antonio. Clementina soffre in disparte vedendo la condizione della figlia ma non può fare altro che colmare di coccole amorose i nipotini e sostenere Laura dandole una mano nelle faccende di casa.
Poi d’improvviso arriva un nuovo, infausto giorno: fine settembre del 1901, le giornate hanno le mattine frizzanti, il cielo limpido e pieno di sole invita Emma e Fiammetta a giocare piacevolmente in strada, vicino a casa, mentre il piccolo Mario dorme beato sognando la dolce poppa che già gode ad occhi chiusi, succhiandosi un ditino in collo a nonna Clementina. L’anziana sulla porta aspetta che mamma Laura torni dal lavoro.
Solitamente è un momento gioioso quello del ritorno della giovane, fatto di abbracci e baci, con le bambine che saltellano contente intorno a mamma che finalmente è con loro, la mamma che spesso porta con sé un pensiero gentile: un dolcetto, un giocattolo vecchio delle signorine della famiglia dove va a servizio, un fiorellino raro… Tutto rende ogni volta magico e sacro il ricongiungimento.
Quel giorno però Laura arriva più tardi, strascicando il passo, è pallida, preme le mani sullo stomaco e con un filo di voce lamenta forti dolori. Accorrono tutte le donne di Maiano ma la giovane è grave, non servirebbero a nulla le cure fatte di infusi casalinghi, di cataplasmi basati su ricette tramandate dal passato.
«Qualcuno corra a chiamare i fratelli della Misericordia». Implora Clementina intuendo tutta la gravità dell’accaduto.
Il fratello di Romolo, un giovane ragazzo meno che diciottenne, si butta a rotta di collo giù per la via delle cave e poi risale su per la “strada nuova” correndo come un pazzo fino alla sede della Misericordia. Lì chiede di un medico, lo trova, lo accompagna col carro dei confratelli al capezzale della sfortunata cognata. Troppo tardi purtroppo, la giovane è vittima dell’acqua infetta bevuta da una cisterna presso l’abitazione dove lavora. Non ci sono rimedi: Laura lascia per sempre i suoi, tre giorni dopo: il 2 ottobre 1901.
Così, mentre in città la vita corre veloce a braccetto al progresso e sbalordita scopre il brivido del cinema e la magia dell’elettricità, mentre i caffè si moltiplicano e Fiesole è il luogo eletto della pace e dell’ispirazione per poeti, scrittori, pittori venuti da ogni dove, c’è un posto dove tutto si ferma, dove lo stupore per la nuova realtà congela l’anima. Maiano in lutto saluta Laura, consola con un solo caldo e grande abbraccio la dolce Clementina e si scopre nuova famiglia per i tre piccoli inconsapevoli bambini senza più mamma.
Romolo attonito, osserva l’accaduto impietrito, sinceramente affranto.
Per qualche tempo ancora sarà nonna Clementina a far crescere i figli di sua figlia svezzando Mario prima del tempo ed insegnando alle bambine il cucito, la maglia, il ricamo.
Il padre intanto lavora in cava saltuariamente, talvolta va a giornata a sistemare un giardino, a fare un orto presso famiglie ricche; intanto conosce nuove persone, frequenta i luoghi di ritrovo del paese, va spesso con il tram fino a Firenze dove stupito osserva strade e negozi. Dove, come prima della tragedia, ama ancora avventurarsi in San Frediano, andar per bettole, giocare a carte. Poco più che trentenne, Romolo è bello e vigoroso, il sorriso è dolce e smagliante dalla perfetta dentatura bianca, gli occhi neri e brillanti immobilizzano e catturano chiunque si trovi ad incrociarli. Le avventure con giovani ragazze non mancano.
L’uomo però non può scordare Laura, non può dimenticare i suoi tre figli perciò per molto tempo rimane in superficie a ogni rapporto, è come se volasse sulla propria stessa vita cercando di scrutarne da lontano il presente ed un vago, fumoso futuro.
VI.
ASSUNTA OTTANELLI
Intanto l’Italia della Sinistra vede l’avvicendarsi di Zanardelli e Giolitti e vive l’illusione di equità e giustizia per ogni cittadino, l’industrializzazione avanza e anche a Firenze accanto alle antiche botteghe nascono ditte importanti: il Pignone, la Galileo, la Manifattura Tabacchi nella periferia; tipografie, case editrici in Centro. E poi c’è il lavoro a domicilio offerto da piccoli imprenditori arrivati da poco sul mercato e che vogliono così promuovere la produzione del legno intarsiato, del cuoio inciso, della paglia, dei begli abiti di seta.
Girare per la città ti inebria, quel mondo frenetico, concitato, farcito degli aromi più disparati, colorato di tinte sgargianti, cattura e aliena la mente.
Utopia?
Chissà! Certamente sicuro ristoro per un giovane scalpellino vissuto fra grigi giganti di pietra, in cerca di nuova felicità.
Romolo si immerge a capofitto in questo nuovo mondo, respira l’aria fresca della modernità, conosce nuove persone, intreccia amicizie. Fra i tanti nuovi contatti, incontra un giardiniere suo coetaneo che gli racconta di quanto sia bello lavorare in un ambiente aristocratico e signorile come quello dove lui presta servizio.
Si tratta di Villa Papiniano, quella bellissima costruzione fra via Vecchia Fiesolana e via Mantellini, famosa già nel ‘500.
Lui è lì da quando c’era la famiglia Barlow ed era appena un bimbetto che guardava lavorare il suo babbo. Ora la proprietà è di un altro anglosassone: Hugh Sartorius Whitaker.
«Vedessi che sale, quanti quadri, statue, tappeti! E poi il giardino immenso, pieno di fontane e sculture!» Racconta l’amico a Romolo.
«So che cercano un casiere» continua «Perché non ti presenti? Le cave stanno chiudendo!»
Romolo ringrazia quel ragazzo gentile, dice che ci penserà, ma per adesso non riesce a prendere alcuna decisione, troppo spaesato, triste, disorientato, senza quella sua dolce metà che l’ha lasciato.
Si sente un vuoto dentro, sente di dover dare un’altra mamma alle sue bimbe, sente di aver bisogno di una donna.
L’incontro con Assunta Ottanelli avviene l’anno dopo che Laura non c’è più. La ragazza abita nel comune di Pontassieve, fra Molin del Piano e Monteloro, ma ha origini fiesolane importanti, la madre infatti è una Patriarchi, famiglia ragguardevole nel paese già dai primi dell’’800. E anche gli Ottanelli vantano notorietà e lustro. Lei è un tipo vispo, vivace, chiacchierina. Indossa con grazia abitini alla moda su un corpo minuto ma ben proporzionato. Ha un volto rotondo e paffuto, incorniciato da lunghe trecce che raccoglie sulla nuca, lasciando scoperto il lungo collo elegante.
Ẻ piena estate, si festeggia san Romolo e la piazza accoglie il mercato. C’è una folla eccitata, tutti sono eleganti, chi acquista un oggetto, chi sgranocchia un croccante, chi prova un cappellino nuovo. Puoi incontrare i locali, ma anche gente venuta dai dintorni più o meno lontani.
Lei con le amiche è arrivata da Montereggi, vicino a Molin del Piano, ha camminato tanto, è accaldata, le gote avvampano. Romolo, che si aggira solitario fra le bancarelle, la vede in quelle condizioni: stanca, sudata, piacevolmente elettrizzata, mentre trangugia sorridente una bibita fresca appena acquistata.
Resta ammaliato, gli occhi fissano quella figurina di donna mentre le tempie pulsano vistosamente al ritmo del cuore, le gambe pur molli, dirigono il passo in direzione di lei, gli sguardi si incrociano.
Inizia così il nuovo rapporto fra Romolo e Assunta. I due fin da subito devono lottare: la famiglia di lei trova Romolo inadeguato, rozzo per una signorina di così buona famiglia. E poi è un vedovo, ha figli… E il carattere poi: altezzoso, caparbio, egocentrico. Insomma, difficile trovar di peggio! Clementina dal canto suo vede in Assunta una usurpatrice del posto di Laura, la rifiuta a priori, non vuole neanche conoscerla.
Tuttavia la ragazza ha deciso: rimarrà ad ogni costo con quell’uomo pieno di problemi, gli vuole molto bene e si sente amata. Prende a frequentare la casa di lui a dispetto di genitori e suocera di Romolo, si guadagna pian piano la simpatia delle bambine e del piccolo Mario regalando loro allegria con racconti fantastici e piccoli doni azzeccati. Emma, ormai grandicella, frequenta la scuola in via Portigiani da un anno, Fiammetta la segue un po’ dopo così Assunta aiuta nei compiti entrambe, dimostra interesse per i progressi che fanno, le affianca, le guida, dispensa consigli preziosi. Clementina piano piano si affeziona.
VII.
LO STRANO MATRIMONIO
Il 1904 è l’anno della svolta in casa Bonanni. Lo storico fulcro della famiglia, colei che da anni e anni aveva unito, sostenuto, confortato, ogni membro della casa, colei che aveva sempre guardato al futuro con fiduciosa speranza, La donna che aveva saputo essere madre dolce, attenta, discreta con l’unica figlia rimastale, la nonna premurosa ed energica allo stesso tempo, saluta i suoi cari della vita terrena.
Ẻ esattamente il dieci novembre 1904.
Un grande vuoto quello che lascia nonna Clementina, i tre nipotini, attoniti, cercano rifugio nella giovane donna amica del loro babbo, quella ragazza dolcissima che li ama tanto. Le coccole, i baci, le novelline rassicuranti, la presenza assidua fanno il miracolo: i tre bambini in capo a pochi giorni, sorridono nuovamente.
Romolo nel frattempo ha abbandonato definitivamente l’attività di scalpellino nelle cave di Maiano, ormai in dismissione e ha accettato quel lavoro come casiere presso la Villa Papiniano che gli aveva prospettato l’amico l’anno precedente. Lì è costretto per contratto a vivere giorno e notte, lasciando i figli alle cure amorose della paziente Assunta.
Lei, innamorata persa, accetta di buon grado la mancata convivenza e pensa: Romolo è sempre preso dal lavoro, deve curare l’orto, il grande giardino, aprire e chiudere il cancello ai signori padroni della villa…
Non può vivere lì con lei a Maiano, anche se si vede lontano un miglio che le vuole un gran bene!
Così la famigliola s’incontra per riunirsi solo di sabato, ed ogni giorno prima di ogni festività, con grande gioia dei tre bambini che Assunta cresce assai bene. Poi, dopo due anni ecco la novità, la donna aspetta un figlio, i fratellini esultano, ma per la coppia non cambia niente: Romolo vive alla villa, lei nella casa a Maiano. Passano i mesi e Assunta è quasi sempre sola, anche il giorno delle doglie il marito non c’è, così lei, in casa e solo con l’aiuto di alcune care donne, dà alla luce una bambina, è il quattro gennaio del 1906. Lui arriva dopo, a cose fatte, dice che vuol chiamarla Laura in ricordo della prima moglie. Assunta acconsente.
Intanto Emma e Fiammetta concludono i primi ed unici tre anni di scuola obbligatoria, Emma è la prima ad essere avviata al mondo del lavoro attraverso la frequentazione di una brava sarta di Maiano che le insegna i rudimenti del mestiere. Poco dopo anche Fiammetta segue le orme della sorella maggiore. Mario invece, unico maschio della famiglia, può arrivare alla licenza di Quinta ed aspirare in futuro, ad un interessante lavoro a Firenze.
Sono anni di cambiamenti importanti per la Società quelli che vedono la crescita dei quattro fratelli Bonanni, anni di pace in cui si ha il tempo di inventare cose straordinarie. L’aereo e il telegrafo avvicinano le distanze. La voglia di emancipazione delle donne che in America fanno cortei per affermare i loro diritti, è ben viva anche qua. Dovunque ne senti parlare, dovunque percepisci il dinamismo veloce che rinnova ogni cosa. Anche a Maiano si parla ogni giorno di come stia diventando facile spostarsi da un luogo all’altro della città, grazie ai nuovi ed efficienti tram elettrici, dell’uso di macchine sempre più specializzate nelle fabbriche, del grande genio di Guglielmo Marconi; ma soprattutto è tangibile la nuova libertà di ogni donna, che si tocca con mano confezionando gli abiti delle signore. Non più corpetti soffocanti che strizzano togliendo il fiato, non più gonnelloni ampi e lunghi, maniche a sbuffo, corpetti attillati. Emma e Fiammetta imparano a cucire vestiti larghi e diritti, tailleur dalle forme essenziali, camicioni comodi che scivolano sulla persona.
La vita prosegue rapida nella routine giornaliera dell’operoso borgo di Maiano. Qui si vive ancora contenti dell’abbraccio dei vecchi giganti di pietra, ormai pensionati illustri, quando la sera ti accolgono rassicuranti dopo una giornata di duro lavoro in qualche grande villa dei dintorni oppure in città. Ḗ ancora un luogo magico quello delle cave di Maiano, sospeso sulla realtà della vita che scorre e di cui conosce tutto ma ne sceglie soltanto gli aspetti a sé congeniali. Tutto il resto, nel bene e nel male è lasciato alle serene chiacchiere di vicinato.
VIII .
ARRIVA LA GUERRA
Quando arriva il 1914, nessuno viene colto di sorpresa, da tempo si parla di imminenti cambiamenti radicali: chi lavora dai signori, nelle ricche ville fiesolane, sente dire che ci vorrebbe una guerra e che sarebbe un buon investimento, altri che seguono la politica, dicono che l’Italia non è ancora intera, perché gli Austriaci ne stanno ancora invadendo un bel po’ su a nord. Si è anche sentito dire che la guerra ci vuole per eliminare un po’ di bocche da sfamare…
«Che stupidaggini, nemmeno per sogno andrei a farmi ammazzare!»
«Non siamo pronti a una guerra, ma che dicono?!»
«Macché, son tutte chiacchiere.»
«Già, intanto a Sarajevo c’è stato l’attentato, avete sentito? Francesco Ferdinando è morto e anche la moglie! Ẻ una cosa grave perché li ha uccisi uno della Mano Nera, un dissidente! Queste son cose che portano agli scontri fra nazioni!»
«Io sono passato davanti al Gambrinus stamattina e ho visto un sacco di gente che andava a sentire una conferenza di alcuni Interventisti sull’entrata dell’Italia in guerra»
«Io non ci credo»
«Io ho paura»
«Speriamo bene!!»
Intanto anche Fiesole, come tutti i comuni d’Italia, prepara un piano d’emergenza in caso di una guerra invocata dai tanti Interventisti, demonizzata da chi schierato all’opposizione, è Neutralista.
Romolo ascolta le chiacchiere standosene zitto, in disparte, pensando in cuor suo che di guai nella sua vita ne ha già passati tanti. «Ci manca anche la guerra!» Osserva.
Comunque, facendo quattro calcoli sull’età, non gli dovrebbe toccare di partire se anche scoppiasse… Così rassicura Assunta che invece si dispera, poi torna al suo lavoro di casiere, lasciando che la moglie riversi sulle vicine, estranee alla famiglia, le sue ansie, i suoi timori per il futuro dei figli e il loro.
Giugno 1914: quella scintilla accesa nella città bosniaca innesca per davvero il conflitto. Ancora qualche dibattito, ancora discussioni sull’entrata o meno dell’Italia in guerra, ma in capo a un anno tanti giovani uomini fiesolani devono salutare i propri cari e raggiungere il fronte.
Nel gennaio del 1915 è richiamata in anticipo rispetto all’età, la classe del ‘95 e inizia anche il richiamo per la Milizia Mobile con i nati dal 1882 all’’88.Da Maiano partono Rolando insieme a Fosco e a Bruno tre bravi boscaioli, le loro famiglie sono intime amiche di quella dei Bonanni fin dai tempi di Antonio e Clementina, anche loro sono figli di scalpellini e giovani padri di piccoli bambini ignari. Poi, per la Milizia Territoriale, richiamano gli uomini dai 34 ai 39 anni. Anche Giuseppe e Mario, anch’essi membri storici dell’affiatato gruppo degli amici di Maiano, salutano i loro concittadini fiesolani e con il groppo alla gola raggiungono il reggimento. Nel 1916 è la volta di quelli del ‘96 e del ‘97.
Che sollievo essere donne! Pensano Emma e Fiammetta.
Intanto la guerra non accenna a finire. Sulla Domenica del Corriere, il settimanale che circola nei bar su in paese, si legge di nuove macchine micidiali, di nuove strategie che seminano morte. Ci sono carrarmati che sfruttano il motore a scoppio, aerei usati come “piattaforme di lancio”, gas velenosi.
Si favoleggia del Berta, il grande cannone leggero dalla grande gittata, seminatore atroce di morte. Si osservano rabbrividendo, i circostanziati disegni dell’illustratore Achille Beltrame che descrive l’orrore di questa terrificante guerra. La gente comincia a conoscere il nome dei tanti paesi distrutti lassù, al confine, soprattutto sul Carso e anche a Maiano si teme il peggio per chi si trova al fronte e combatte. Nel gennaio del 1917 non è ancora finita: tocca partire a gli uomini di oltre 40 anni, destinati al servizio nelle retrovie: inutile utilizzare i pochi giovani rimasti per un incarico così poco importante; sono le nuove leve che devono invece andare allo sbaraglio, in prima linea e poco importa se ormai son quasi tutti morti! Poco dopo sta ai nati nel 1898. Nel maggio dello stesso anno inizia la chiamata dei ragazzi del ‘99, i diciottenni, i più giovani combattenti di tutta la Grande Guerra. Infine nel 1918 comincia il richiamo della classe 1900: un brivido percorre la schiena della giovane Assunta che ha visto Mario in fasce e lo ha fatto crescere con tanto amore insieme alle altre tre bambine. Per sua fortuna il ragazzo non dovrà mai raggiungere il fronte, infatti, proprio quando aveva già pronte le valigie, arrivò la notizia più bella: la guerra era finita!
A Fiesole, come dovunque e quindi anche a Maiano, durante quei lunghi anni di guerra, rimangono quasi solo donne e bambini. Rolando scrive alla moglie raramente, ma tanto basta per tranquillizzarla: è vivo e le racconta che anche gli altri amici stanno bene, ma quel che vede intorno e che descrive fa veramente inorridire, sono descrizioni di morti disseminati ovunque, senza sepoltura, di trincee ricolme di feriti, di giorni e giorni senza cibo, di paesi distrutti…
Sono dunque anni difficili, fatti di attese e speranze, funestati da tante morti e scarsamente rallegrati da qualche “ritorno”. L’ospedale allestito in Seminario si riempie di feriti, di giovani con la bronchite o la malaria, ragazzi devastati da quella guerra insensata. Lì, donne volontarie affiancano medici e infermiere nel provare a curare i soldati fiesolani, strappati alle loro case e poi restituiti come bambolotti rotti ai propri affetti.
L’altro ospedale, a Camerata, è nato proprio adesso per curare i soldati inglesi e americani, spesso ospitati per la convalescenza da vecchi conoscenti e amici conterranei stabili ormai sul territorio fiesolano. Anche nella Villa Papiniano, i proprietari accolgono qualche giovanissimo soldato convalescente che spiccica goffamente pochissime parole di Italiano, ma è così che Romolo viene a sapere dalla viva voce di chi l’ha vissuta, quanto sia dura la vita al fronte, col freddo, la fame, il terrore di poter morire, la nostalgia di casa. Si commuove ascoltando quei ragazzini poco più grandi dei suoi figli e benedice la propria condizione di “anziano” con un lavoro sicuro alle mani e quella della sua famiglia, responsabile e laboriosa, soprattutto, riguardo alla minaccia del coinvolgimento nella guerra, molto, ma molto fortunata.
I Bonanni infatti, per buona sorte, non vengono coinvolti dall’evento bellico: Romolo, del ’70, è considerato ormai troppo anziano per andare al fronte, Emma e Fiammetta sono due femmine e Mario, benché sfiorato dal rischio della partenza, si salva per un soffio.
Certo anche per loro occorre adeguarsi, reinventarsi. Il lavoro di sarta non rende: le signore non pensano a rifarsi il guardaroba in quei momenti tragici!
Emma e Fiammetta diventano allora cameriere nelle ricche case di imprenditori stranieri, che con la guerra hanno aumentato il gruzzolo. Mario, ancora ragazzo, dà una mano ad Assunta nei lavori di casa, in assenza di Romolo ancora casiere in quella stessa grande Villa Papiniano.
Quando le ostilità hanno fine, rimane nell’aria un senso di spaesamento, eppure l’Italia è una delle nazioni che hanno vinto, ma la bocca è amara, resta solo la forza di fare onore a tutti quei soldati sfiniti, mutilati, straziati, a quei ragazzi inconsapevoli che sono stati palesemente sfruttati dai cinici aspiranti al potere.
IX.
ANGIOLO DEL SERRA
Settembre 1919. Il giovane soldato Angiolo Del Serra viene dimesso dall’ospedale del Seminario di Fiesole dopo più di un anno di cure per una brutta ferita al torace. Era stato raccolto in trincea, sull’altopiano del Carso da alcuni commilitoni nativi di Fiesole, uniti nello stesso battaglione, impegnati nelle stesse operazioni di guerra, congedati lo stesso giorno dopo essere stati curati sul posto per lievi ferite riportate combattendo. I fiesolani avevano implorato i responsabili dell’ospedale militare di affidarlo alle cure dei medici del loro paese. Si tratta proprio di quei tre giovani partiti da Maiano qualche anno prima, persone dal grande cuore che subito avevano fatto amicizia con quel ragazzo spaesato, venuto da Pistoia per conquistare come loro, il pezzo d’Italia in mano allo straniero. Patriottica azione, ma lontana dai disegni di vita di quei ragazzi che avrebbero sicuramente preferito restare nelle proprie case, anche in una patria un po’ incompleta. Dopo il congedo i quattro commilitoni si erano ritrovati così tutti quanti e non si erano più lasciati. Una volta guarito, Angiolo viene accolto nella casa di uno di loro, l’ex boscaiolo di nome Rolando che abita da sempre nel borgo di Maiano con la compagna e il figlioletto ancora piccolino e aiutato a rimettersi in forze. Angiolo è sì originario di Pistoia, ma ormai lì nessuno lo aspetta più, così decide di rimanere in quel bellissimo borgo di Maiano e di darsi da fare a trovare un lavoro per aiutare in qualche maniera il suo amico che tanto ha fatto per lui. Abile ed esperto nel maneggiare la farina e nell’impastare il pane, viene presto assunto come fornaio alla fattoria di Maiano.
Angiolo è un giovane uomo dell’’87, dal carattere dolce, gentile, ben disposto nei confronti di tutti. Fa parte di una famiglia numerosissima, ma i tanti fratelli e sorelle vivono sparsi un po’ in tutta Italia; lui mantiene i contatti epistolari soprattutto con la sorella emigrata a Genova prima della guerra, mentre altri li ha persi di vista: due sono morti nel conflitto, altri si sono sposati e fanno la loro vita dopo aver reciso ogni legame con le proprie origini, i genitori sono entrambi deceduti.
Dopo le cure ricevute in seminario e le attenzioni dell’amico, ha riacquistato totalmente le forze e il suo aspetto ha ripreso il naturale splendore. Ha un fisico asciutto, con due spalle larghe che delimitano la schiena dritta da cui si diparte il collo robusto, ben tornito, perfetto per sostenere il capo perfettamente proporzionato; il mento forma un semicerchio con la mandibola ed evidenzia un’irresistibile fossetta naturale al centro. La bocca, abbastanza grande, è dominata da un bel naso dritto. Gli occhi scuri, a mandorla, sono sormontati da sopracciglia folte, ben disegnate sulla fronte assai ampia.
Porta i capelli cortissimi, alla maniera militare, ma si vede che sono folti e neri anche se tendono a diradarsi sulle tempie.
Sa suonare ad orecchio la chitarra: ballabili allegri, musiche popolari che invitano a raccogliersi insieme cantando e ballando nella spensieratezza delle note leggere.
Ẻ un bell’ uomo insomma quest’Angiolo venuto da Pistoia che nel borgo di Maiano attira gli sguardi di molte giovani ragazze e le invita a sognare …
Fra queste c’è Emma, la figlia di Romolo che vive nella casa che era stata dei suoi nonni con le due sorelle, il fratello Mario e la matrigna. Ẻ una ragazza minuta dai lunghi capelli neri e lisci che porta raccolti in una crocchia dietro la nuca. L’ovale perfetto del volto incornicia gli occhi scuri e vivaci, la bocca dalle labbra carnose ed un nasetto perfettamente disegnato. La ventiquattrenne Emma lavora presso la Villa Krauss già da qualche mese, è occupata come cameriera dei baroni discendenti del grande e famosissimo musicologo e collezionista di strumenti antichi, Alessandro Krauss.
I due giovani Emma ed Angiolo si incontrano spesso la mattina, quando lui sta rientrando a casa dopo aver sfornato il pane caldo e fragrante presso la fattoria dove svolge la sua attività di fornaio mentre lei inizia la sua giornata lavorativa incamminandosi verso la Villa Krauss.
Passano alcuni mesi di sguardi muti, sfuggenti, che vorrebbero ostentare reciproca indifferenza: lui è un uomo fatto, si vede, ha nove anni più d lei, ancora giovane e spensierata. Lui benché stimatissimo da tutti lì, al borgo di Maiano, è comunque di fuori e si sa poco del suo passato…
Bisognerà aspettare la primavera del 1920 perché i due comincino a parlarsi: prima un saluto sfuggente, poi qualche discorso generico:
«Chi sei…»
«Quanti anni hai…»
«Io vengo da…»
«Chi sono i tuoi…»
Emma da un po’ di tempo esce al mattino con il batticuore, lui corre verso casa appena aver sfornato l’ultimo filone, ancora infarinato e col grembiule addosso.
Alla fine di agosto, il 29, giorno del compleanno, Emma ha il regalo più bello e bramato: Angiolo si dichiara con un lungo ed appassionato bacio.
Seguono mesi felici vissuti con spensieratezza da i due giovani che ottengono l’approvazione di Romolo Bonanni e di Assunta nonostante la differenza di età e la scarsa chiarezza sull‘origine del bel soldato pistoiese. Anche il borgo intero di Maiano approva perché Angiolo è un tipo onesto e buon lavoratore, disposto sempre ad aiutare tutti.
X.
GRANDI CAMBIAMENTI
Intanto il mondo dopo la grande e dissennata guerra, sta cambiando: il grande sogno di miglioramento portato dalla vittoria si va spengendo, lasciando emergere i nodi stretti della giustizia sociale. La lotta di classe si acuisce gridando forte la rabbia degli operai contro lo sfruttamento e cresce il malcontento degli imprenditori; la paura di certi dirigenti davanti alla pretesa urlata dei diritti dei lavoratori, apre le porte alle prime ronde e a Mussolini che con i Fasci italiani di combattimento si è appena affacciato alla finestra della storia.
E poi si parla sempre più di Stati Uniti, dove la Società di massa si sta affermando con forza, dove le donne fumano e portano i capelli alla maschietta, dove la radio e il cinema diffondono questa nuova cultura.
Arriva il mito del grande Charles Chaplin, nuovo Pierrot che interpreta i sentimenti popolari contingenti.
La gente di Maiano parla di tutto questo criticando i nuovi costumi americani e interpretando con sospetto il recente andamento della società post bellica italiana.
Ma per Angiolo ed Emma tutto è vago, sfocato rispetto a loro due, che uniti si sentono al centro del mondo e che non sanno altro che raccontare e vivere del loro grande amore.
Intanto il Fascismo avanza con forza facendo proseliti in tutta la Toscana, ma specialmente a Firenze pare attecchisca meglio. Emma e Angiolo stanno insieme da poco quando Spartaco Lavagnini, il sindacalista comunista conosciuto da tutti, viene barbaramente ucciso dagli squadristi nel suo ufficio e solo l’anno dopo, ecco la nefasta marcia su Roma che chiuderà per un ventennio la porta alla democrazia.
A Fiesole si dimette suo malgrado la giunta socialista contraria alla violenza, ormai considerata reazionaria.
Nell’operoso mondo di Maiano tutto questo si vive in sottofondo, come se si trattasse di vicende distanti, che scalfiscono appena la realtà contingente di questo microcosmo; ciascuno pensa a mantenere la propria occupazione con tenacia, senza tanto pensare se quel regime subdolo che si sta insinuando possa arrivare a ledere la propria libertà.
I discorsi del Duce ipnotizzano molti, in quell’ambiente semplice qualcuno lo trova giusto, pensa che parli per l’interesse di quelli come lui che sopravvivono appena ai limiti della povertà. E c’è chi applaude inconsapevolmente quell’imbonitore urlante mentre promette utopistiche glorie.
Angiolo spera soltanto che non ritorni mai più la guerra. Lui l’ha vissuta: tragica, disumana, maledetta e ingenuamente confida in quello Stato forte e intransigente, garante (all’apparenza) di ordine e giustizia.
Cresce in questo contesto il sentimento profondo che unisce sempre di più i due giovani innamorati di Maiano.
Così, naturalmente, senza l’avallo della Legge Civile o della Chiesa, concepiscono il primo figlio.
La famiglia di Emma è costernata, incredula, arrabbiata mentre la gente mormora, bollando con epiteti pesanti la coppia imprudente.
Tuttavia, pure nella vergogna, nonostante il disappunto iniziale e il disorientamento, Assunta vuole che Emma trascorra in casa propria quella gravidanza e che con lei rimanga Angiolo; al contratto formale ci penseranno dopo. La coraggiosa Assunta per la seconda volta nella vita, da quando scelse di seguire Romolo nonostante tutto e tutti, sfida l’opinione superficiale della gente pensando solo al bene di chi ama.
Così il giorno undici giugno del 1922 nasce la primogenita, si chiama Mila. Il parto avviene in casa, così come fu per la mamma e per la nonna di Emma, proprio in quella stessa stanza dove venne alla luce Laura da nonna Clementina.
La bimba è bella e sana, farà da “damigella” al matrimonio della mamma, celebrato il mese seguente a Fiesole, velocemente, alla presenza dei soli parenti più stretti e dei fidi Rolando e Fosco testimoni perfetti. Si fa così, tanto per chiudere la bocca della gente che continua a insinuare maldicenze.
XI.
VIA BENEDETTO DA MAIANO
Intanto la nuova coppia cerca una casa autonoma, che possa ospitarla senza nessun altro intorno e in capo a poco tempo la trova: c’è un edificio annesso al vasto complesso della Fattoria di Maiano, proprio lì dove lavora Angiolo in cui si affitta un quartiere, si trova a pochi passi da casa Bonanni, è in via Benedetto da Maiano, al 17. Sono tre stanze: un ingresso, camera e cucina. Le stanze sono grandi, accoglienti, così i due giovani non se la fanno scappare e solo qualche mese dopo il matrimonio, a febbraio del 1923, si stabiliscono nel nuovo appartamento.
In questo periodo tutto il complesso di Maiano con villa, fattoria cappella e terreno appartiene al grande chirurgo Teodoro Stori, primario della casa di cura Olga Basilewsky. Ne è in possesso da poco, esattamente dalla fine della guerra, dal ‘18 e quando Emma ed Angiolo vi si insediano, il chirurgo ha già riattivato l’ammodernamento dell’attività agricola della fattoria oltre a continuare il rimboschimento di tutte le cave che già il suo predecessore, sir Leader Temple aveva avviato.
L’ambiente è confortevole, bellissimo per i due giovani che sono al settimo cielo.
Suggellano subito la loro grande gioia celebrando al meglio il loro grande amore.
Ed è così che in questa nuova casa, l’anno seguente, il 1924, nasce Milo. Il bimbo è bello, simile al padre in mille sfumature, una fra le tante viene notata subito da tutti: quella fossetta tirabaci sul mento «che» sentenziano le donne di Maiano «lo renderà un grande seduttore».
Il piccolo emergerà in futuro piuttosto che come “tombeur de femmes”, come disegnatore raffinatissimo di ritratti a lapis o carboncino e come ottimo sarto di vestiti teatrali di epoche passate.
Sono momenti magici per Emma ed Angiolo, oltremodo felici nel loro caldo nido.
Intanto il regime si fa sempre più aggressivo, ledendo parecchie libertà e diritti. Il socialismo, storicamente primo partito di Fiesole, vede chiuso il suo organo, vive nascosto, braccato dai picchiatori che anche da queste parti, come in tutta l’Italia, la fanno da padroni.
Angiolo vive questo momento con ansia, con paura, si sente altro, diverso dai giovani spavaldi con le camicie nere, ma non si schiera: ha già due figli piccoli, una moglie, vuole salvaguardarli, proteggerli, mantenerli sereni.
Tuttavia non si sottrae dal tendere la mano a un caro amico socialista convinto, attivo antifascista, braccato. Gli offre rifugio nella propria casa per qualche mese spacciandolo per un parente di Pistoia in cerca di lavoro.
L’uomo rimane con la famiglia Del Serra per alcuni mesi durante i quali a Firenze la violenza squadrista si intensifica a tal punto che alla fine non é più il caso di mettere a repentaglio la famiglia ospitante. Così Gino Camici (questo il suo nome) decide di partire lasciando per gratitudine in dono un suo ricordo che rimarrà per sempre: il quadro di una madonna col bambino. Sul retro scrive una dedica: All’amico Angiolo Del Serra il sottoscritto questa sacra immagine offre – 5 aprile 1925.
La notte del 4 ottobre 1925 i fascisti uccidono tre importanti esponenti del partito socialista sotto gli occhi atterriti dei loro familiari: Gaetano Pilati, l’avvocato Consolo e Giovanni Becciolini. Invadono e devastano molte case di antifascisti. Angiolo ed Emma si stringono senza parlare: hanno rischiato per davvero tanto nascondendo un nemico del regime, soltanto adesso ne prendono piena coscienza e in quell’abbraccio incrociano lo sguardo complice esprimendo ciascuno il proprio orgoglio.
Trascorrono anni duri, i figli piccoli limitano il lavoro di Emma che cerca di barcamenarsi nelle ristrettezze sforzandosi di stare con la coscienza a posto per aver già messo al mondo per la Patria ben due figli in tre anni … proprio come comanda il Duce!
XII.
VILLA MAREMMI E LA BREVE VITA DI ANGIOLO
Gennaio del 1927: Emma è nuovamente incinta.
Con tre bambini piccoli l’abitazione di via Benedetto da Maiano ormai risulta angusta, mancano i posti letto, manca l’aria. Inoltre i soldi che i due sposi guadagnano sono troppo pochi, serve una decisione drastica, un cambiamento radicale.
Angiolo non sa che pesci prendere, è confuso, si confida con qualche conoscente fidato su, in paese.
Ed ecco che arriva inaspettata una svolta: c’è un forno alle Caldine che cerca subito un bravo fornaio. Il lavoro è durissimo perché si svolge la notte, ma è ben remunerato.
Lui valuta il caso con Emma. Certo ci sono i contro e i pro: l’orario scomodo, la lontananza da casa, Emma che rimarrebbe tutta la notte sola… E poi c’è anche da trovare un nuovo appartamento, la pancia cresce ed a settembre nascerà il terzo bambino.
Emma chiede dovunque se qualcuno conosce qualche casa sfitta ed ecco che proprio una compagna di lavoro, a Villa Kraus, le indica un appartamento all’interno del “Casone”, l’enorme stabile situato fra via Giovanni Angelico e via Ferruzzi.
Si tratta di un appartamento posto all’ultimo piano della grande Villa Maremmi. La costruzione porta il nome del suo proprietario, ingegnere di grandissima fama ai tempi del granduca Leopoldo.
Luigi Maremmi aveva acquistato tutto il complesso, peraltro sorto sulle poche rovine rimaste delle povere abitazioni degli scalpellini Ferrucci, per lo svago ed il riposo durante l’estate di tutta la sua famiglia. Dato però che la costruzione era veramente troppo grande, l’aveva suddivisa in tredici appartamenti, tenendone uno solo per le sue esigenze. Gli altri li aveva affittati. L’uomo morì nel 1885 ma l’uso della villa continuò nella maniera da lui concepita, ancora per molti anni. Vi abitarono il figlio di lui, conte Cesare, le figlie, i nipoti…
Nel 1927 la situazione era ancora quella avviata dall’ingegner Luigi e negli appartamenti si avvicendavano persone sempre diverse.
Angiolo ed Emma vanno a vedere l’appartamento in locazione: è all’ultimo piano e vi si accede da una lunga scala interna dopo essere entrati dal portone al numero 10 di via Fra Giovanni Angelico.
L’ambiente è grande, composto da l’ingresso, quattro camere, la cucina, il sottoscala; il gabinetto è in casa. Per i due giovani si tratta di una vera e propria reggia che se Angiolo cambierà posto di lavoro, potranno permettersi di affittare.
Ẻ luglio e per l’anniversario del loro matrimonio i Del Serra si regalano il grande cambiamento: la casa in quella grande villa sarà loro, la pagheranno grazie al nuovo stipendio che Angelo percepirà dal nuovo lavoro.
Dopo la firma del contratto, comincia il faticoso trasloco; gli oggetti e i mobili da trasportare non sono molti, ma non disponendo di mezzi a motore devono usare carretti di fortuna e braccia umane. Ẻ il dieci settembre 1927 quando comincia la nuova vita in quell’ambiente fino a poco tempo prima sconosciuto. E subito l’abitazione risuona dei vagiti del nuovo nato: Silla che vede la luce il dodici, due giorni appena dal nuovo insediamento. La coppia è felice, ammirata da tutto il vicinato che osserva con bonarietà ed affetto quei tre bimbi vivaci che non danno tregua alla loro mamma dolcissima.
Angiolo tutte le notti parte e va a Caldine dove impasta e inforna il pane per tutta la frazione. A mattina è sfinito e quando ritorna a casa può soltanto dormire.
Intanto Emma “arrotonda” facendo qualche lavoro in più rispetto a quello in villa Kraus: ripara abiti, accetta servizi straordinari presso qualche famiglia ricca se c’è una cena importante, una festa… Lascia i bambini alle vicine, ben liete di aiutare quella giovane donna attiva e brava.
Così passano alcuni anni affannosi ma nello stesso tempo sereni durante i quali i tre bambini crescono amati e coccolati.
Intanto la retorica del regime affonda e marca sempre più la propria impronta. Celebra in ogni occasione le azioni dei capi e dei loro subalterni, rappresentati come eroi di ogni impresa che tramite la violenza si risolve sempre a loro vantaggio. La stampa e la radio si mobilitano per stimolare l’opinione pubblica e indirizzarla al pieno consenso del regime.
“Ama Iddio, la Patria, la Famiglia” il monito diventa uno slogan ricorrente che ascolti alla radio ogni momento, vedi scritto sui muri, cogli nei discorsi della gente. I negozianti fanno a gara a chi possiede in bottega il ritratto più grande del Duce. Si moltiplicano le parate solenni, più simili ad una rappresentazione teatrale che ad una esibizione militare, le feste per celebrare il raccolto, le dispute per chi ha prodotto più grano.
Nel ’29 Mussolini strizza l’occhio alla Chiesa e intanto manda soldati in Africa benedicendone stupri e razzie.
Anno cruciale questo 1929: gli Stati Uniti, il Paese che ha messo un punto alla guerra, che economicamente ci ha risollevato, va verso la crisi, il dollaro vacilla sotto il peso della merce invenduta, il prezzo dei generi più necessari come il pane o il latte vanno alle stelle. A ottobre si legge sulla prima pagina di ogni giornale che la borsa di Wall Street è crollata, molti industriali sono andati in rovina, qualcuno per la disperazione si è ucciso. Tanti prevedono le conseguenze disastrose che potrà avere l’evento anche in Europa e infatti in capo a pochi mesi, tutto il vecchio continente è in ginocchio, a cominciare dalla Germania, grande perdente della recente guerra. Qui la popolazione esasperata, chiede pane, equità, giustizia affidandosi a un personaggio visionario che trascina le folle facendole sentire “elette del creato”, con facoltà di imporsi ed annientare chiunque non sia ariano.
Il “tipo”, grande amico di Mussolini, progetta con lui grandi e proficue collaborazioni.
A Fiesole si parla sottovoce del grave momento che si sta vivendo e chi, come Angiolo ed Emma ha figli piccoli, teme di non poterli più sfamare di lì a poco, percepisce le forzature, le manipolazioni del regime. Tuttavia si stringono i denti, si va avanti con tenacia, a testa bassa. Emma accetta un secondo servizio presso la casa di Baccio Maria Bacci, l’artista rinomato di scuola futurista e solo a tarda sera, quando rientra disfatta e affranta dal lavoro, s’ingegna a metter toppe o a rammendare gli abiti consumati.
Angiolo, a sua volta è sempre più stanco, talvolta forti fitte allo sterno gli bloccano il respiro e lo costringono a sedersi, ma dopo qualche minuto passa tutto, così pensa che non sia niente di grave, probabilmente solo tanta stanchezza e guarda avanti.
L’uomo, innamoratissimo, non fa che coccolare ed onorare la sua dolce Emma con sincero affetto, e lei ricambia con slancio. La famiglia è serena, l’amore vibra ancora forte.
Nel 1930 si annuncia il quarto figlio.
Sara nasce il 13 aprile del 1931: una bella bambina dai capelli neri, gli occhi tendenti al nocciola, come la mamma, i lineamenti delicati, eleganti, presi dal babbo. La nuova nata non è certo un peso per la famiglia che adesso può contare sull’aiuto della figlia più grande, Mila che all’età di quasi dieci anni, è ormai responsabile e matura per prendersi cura della sorellina. La ragazzina frequenta la Quinta classe, perciò completerà l’obbligo scolastico proprio quest’anno a giugno, per poi accingersi ad apprendere l’arte del cucito. Lei tuttavia, se potesse seguire la propria aspirazione, proseguirebbe volentieri gli studi, sarebbe un’intellettuale: è una divoratrice di libri e di riviste di ogni tipo. Purtroppo però il periodo che si sta vivendo è poco adatto per onorare le proprie vocazioni, così Mila apprende docile tutti i segreti della brava sarta senza fare opposizione.
Nonostante tutti i problemi legati al Fascismo, sono anni belli questi a cavallo del terzo decennio del ‘900 per la giovane coppia di sposi: Emma ed Angiolo stanno vivendo un momento intimamente loro, di tranquillità e pace, uniti da un amore che va facendosi sempre più intenso.
«Lo sai che ne aspetto un altro?» Confida Emma ad Angiolo due mesi dopo il quarto parto.
«Davvero!? Non posso crederci, che gioia, che bella famiglia la nostra!»
«Ma ce la faremo?» Si domanda Emma ancora incredula nonostante l’evidenza.
«Certo che sì, lavoriamo per questo e poi forse il Regime ci darà un premio»
Ed è così che Emma accetta di buon grado la quinta gravidanza. Purtroppo però, nell’arco di qualche settimana, la donna perde il bambino: troppo stressata, troppi impegni con Sara appena nata, gli altri tre figli, il lavoro che non si può lasciare.
La coppia piange la perdita che immediatamente riesce a rimpiazzare: esattamente un anno e un mese dopo Sara, arriva l’ultimo genito, un bel maschietto che viene chiamato Ugo. Ẻ un bimbo molto bello, paffuto, simile nei colori alla sorellina nata prima di lui.
Adesso l’appartamento all’ultimo piano del “casone” risuona pieno di vita giorno e notte, i cinque piccoli Del Serra sono la gioia non solo dei loro genitori, ma di tutti gli affittuari della villa Maremmi che fanno a gara per andare a trovarli, trastullarli, portarli nelle loro case a giocare quando i loro babbo e mamma sono a lavoro oppure semplicemente per farli riposare un attimo dopo ore di affanni.
Emma, dopo l’ultimo bimbo nato da qualche mese ha assunto un’aria così dolce e struggente che ispira l’estro del pittore da cui lavora come domestica. Il grande Baccio Maria Bacci la prega di posare per lui con Ugo in braccio, a simulare una Madonna col Bambino. Emma timidamente accetta, senza pensare che quel ritratto la testimonierà in eterno.
Ẻ il 1933: dicembre è arrivato col suo freddo pungente, con le poche ore di luce e lunghe notti, con i camini a legna per scaldare almeno la cucina dove abiti e lenzuola asciugano fumando caldo vapore, davanti al fuoco acceso. Nei letti gelidi , “preti” e “trabiccoli” sorreggono provvidi scaldini di terracotta che invitano al riposo.
Manca poco a Natale, tutti vivono questa festività come promessa per un miglior futuro colmo di pace e di prosperità…
I bambini in fermento, pensano alle leccornie del pranzo e pregustano già la gioia della calza che troveranno appesa sotto l’ampio camino il giorno della Befana.
Ma quel dicembre del 1933 ha in serbo tutt’altro che speranze e gioie per Emma e i cinque figli. Quel mese maledetto, il giorno diciassette, si riscrive il destino di tutta la famiglia privandola del suo stesso creatore, di colui che sulla base dell’amore, aveva unito sette vite rendendole felici. Angiolo muore all’improvviso a causa dell’arresto fulminante del suo cuore.
Emma, pietrificata dal dolore, sa che non può cedere alla disperazione, raccoglie dentro di sé quel sentimento forte che la legava a lui e ne ricava nuova energia per dedicarsi al meglio ai figli.
Nessuno della sua famiglia d’origine può darle una mano: Fiammetta vive col marito a Firenze ormai da qualche anno e anche Laura la sorella più giovane, se n’è andata in città col proprio compagno e la mamma, Assunta. Mario, ancora scapolo, vive alle Cure e a breve anche lui si sposerà. In quanto a Romolo, il padre, si è ormai tirato fuori dalla famiglia e dai suoi affetti e vive solitario, lavorando come casiere nella solita Villa Papiniano, dagli stessi padroni anglosassoni che nel frattempo hanno abbellito la proprietà con un giardino splendido, progettato a forme geometriche, sul vero stile “all’italiana”. Qui Romolo si è ormai specializzato nella cura e nella conservazione delle piante, ama quella sua attività che lo allontana tuttavia sempre più dalla propria famiglia, ma che lo tiene anche al riparo da qualunque coinvolgimento politico in quel momento così pericoloso, proprio come desidera: fuori da tutti i problemi, invisibile al mondo.
XIII.
VEDOVA CON CINQUE FIGLI
Intanto avanza e si fortifica il regime fascista col Duce che fa la primadonna e viene acclamato in Europa per la proposta utopica di un Patto a quattro, illusione di un decennio di pace.
Nel ’35 divampa la guerra d’Africa mentre lo stesso anno la Società delle Nazioni condanna l’Italia bloccandone l’economia. Mussolini farà l’offeso e costringerà il popolo italiano a vivere nell’autarchia.
Seguono anni di stenti e privazioni.
Eppure Mussolini riesce a fare dell’autarchia uno strumento per alimentare l’orgoglio degli italiani: “Sanzioni? Chi se ne frega” -Recita lo slogan fascista più diffuso del momento.
L’autosufficienza diventa un mito, così le signore che abitano le ville di Fiesole sostituiscono il tè con il carcadè, nei caminetti e nelle stufe brucia la lignite al posto del carbone e i vestiti da inverno vengono confezionati con il nuovo tessuto detto lanital anziché con la solita lana. Si tratta di una stoffa ruvida, pesante, che rovina le mani delle madri di famiglia che, come Emma, cuciono in casa gli abiti per sé e per i propri figli. D’estate poi, il cotone non lo trovi più, si usa la fibra di ginestra.
Sul muro che costeggia la strada nuova che porta in piazza di Fiesole, campeggia una scritta a caratteri cubitali: “E’ l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende”. Emma che legge quello slogan ogni giorno andando a comprare il cibo che le spetta per la sua numerosa famiglia, pensa in cuor suo a quanto quelle parole siano vuote. Altro che campi arati e armi pronte all’uso, qui la maggioranza della gente sta facendo la fame. In più non si può più neanche prendere un caffè: dicono che fa male! Pensa Emma fra sé scuotendo la testa Ma quando mai?! E ce lo fanno sostituire con la cicoria, come se fosse uguale! Ma, speriamo bene!
Intanto nel “casone”, come dovunque, si raccolgono gli stracci, la carta, le pentole di rame, come comanda Mussolini: servirà tutto ad esser riciclato, per sostenere l’autosufficienza. Eh, sì, l’autosufficienza impera: a Villa Maremmi le donne fanno da sole anche le scarpe, ricavano mutande e reggiseni dai vecchi lenzuoli, lavorano ai ferri calze e calzini.
Intanto Silla a scuola ha ricevuto un bellissimo salvadanaio di coccio con la raccomandazione della maestra e del podestà di risparmiare più possibile qualche soldino per aiutare la “cara Patria “. Il bambino è raggiante:
«Mamma, guarda che bel regalo!» Emma sorride triste:
«E adesso cosa ci mettiamo?»
Intanto con l’onere dei suoi cinque figli, Emma rivolta giacche e cappotti, sferruzza come tutte calzini e sciarpe, cuce suole di feltro e cartone per rinforzare scarpe. Lavora a pieno ritmo in molte ville intorno, ma i cinque figli reclamano di più del poco che ricava dal suo sforzo.
La sicurezza insperata arriva quando, per intercessione del parroco, il caso di Emma viene preso a cuore dalle Suore Inglesi che abitano nel convento di via Vecchia Fiesolana. Le suore, nonostante non ne siano più proprietarie, hanno mantenuto ingerenze sull’Ospedale Sant’Antonino che si trova di fronte al loro convento; molte prestano la loro opera di infermiere proprio all’interno delle corsie, benché tutto il complesso sia ormai di proprietà del Comune. Grazie a ciò Emma viene assunta in quell’ospedale come aiutante cuciniera: un miracolo! Lei fin da subito onora quel lavoro insperato dedicandosi incondizionatamente a quella occupazione. La mattina alle cinque è già in piedi, per essere alle sei nella vasta cucina; ritorna a casa che è ormai calato il sole e recupera i figli che vicine gentili hanno sorvegliato per lei. Spesso porta per loro qualche avanzo di cibo che lei stessa aveva cucinato.
Ma nonostante l’impiego che apporta una certa sicurezza, Emma è costretta a lasciare la grande casa dove aveva vissuto i suoi sogni più belli, così scende a terreno, nel quartierino modesto di via Ferruzzi, sempre inserito nell’enorme Villa Maremmi. L’affitto quaggiù è meno caro, ma purtroppo lo spazio si è alquanto ristretto: una piccola camera per mamma e figlie femmine e due angusti locali da sfruttare per il riposo dei maschi. Il dono dell’amico Camici, da sempre testimone dell’amore profondo fra Emma ed Angiolo, troneggia comunque come prima sulla testata del lettone, protezione e conforto per Emma che spesso implora quell’immagine dolcissima della Madonna col Bambino, di riportarle il suo rimpianto amato.
Intanto, sempre per intercessione delle suore inglesi, si prospetta la possibilità di affidare l’educazione dei tre figli maschi a un istituto serio e fidato: quello dei Salesiani in via Gioberti. Emma è titubante, ha paura di perdere l’affetto dei suoi bambini, ha paura di non rivederli mai più. L’ansia l’assale. Lei è davvero smarrita. Poi prevale il buon senso. Certo, lasciare che gente fidata istruisca i ragazzi, li guidi a un lavoro futuro, può essere davvero un aiuto prezioso per una giovane vedova sola.
Così accetta e per anni ogni giorno di festa incontrerà nel collegio a Firenze i suoi tre ragazzi, li vedrà crescere onesti e sereni e andrà avanti tranquilla.
XIV.
VITA DURA VERSO UNA NUOVA GUERRA
E il tempo procede inesorabile verso nuovi disastri, verso ulteriori affanni.
La primavera del 1938 prelude al nuovo dramma.
Pasqua è vicina: lo lasciano intuire le vetrine dei negozi che espongono i simboli del salvifico sacrificio di Cristo e della sua resurrezione; lo testimonia l’aria tiepida che invita alle prime passeggiate la sera, lungo il corso dell’Arno, alla luce chiara dei lumi a gas, schierati dritti come soldati al passaggio dello spensierato viandante. C’è un profumo di fiori che inebria in questa primavera fiorentina, che aliena la mente da certi sinistri presagi di morte.
Così nessuno si accorge che la bella città si sta preparando ad accogliere quell’essere demoniaco che è Hitler. Tutti in questa strana primavera, si apprestano a salutare l’osceno lucifero perché così Mussolini ha comandato, tutti lo faranno con leggerezza, pensando a un diversivo senza alcun peso…
Ma dopo pochi mesi, si apre l’abisso della nuova guerra.
L’oscuramento è il primo passo: dal “casone” quando viene la sera, scorgi soltanto flebili lucine nella pianura sottostante che non bastano più a rischiarare la bella Firenze. Poi la città comincia a vedere le sue statue ingabbiate e circondate da sacchi di sabbia, protette da tettoie; molte cappelle sono murate. Si nascondono i mille fragili tesori: le vetrate della Biblioteca Laurenziana, quelle della Basilica di Santa Maria Novella, di Santa Maria del Fiore, di Santo Spirito. Molte opere d’arte come statue e quadri vengono imballati e traferiti in palazzi periferici, lontani, dove forse le bombe non cadranno … La città assume pian piano l’aspetto di un magazzino enorme, nel quale i cittadini provano ancora a vivere una vita “normale” frequentando ritrovi, caffè, cinema e teatri, come volessero nascondersi a quello che sta accadendo.
Emma continua un po’ spaesata il suo tran tran, lavorando sodo tutta la settimana e scendendo in città ogni giorno di festa a salutare i sui ragazzi presso il collegio dei Salesiani. Mila, la figlia grande è una brava sarta e guadagna qualcosa; nei lunghi pomeriggi trascorsi a cucire, aiuta anche Sara a svolgere i suoi compiti a casa. La bambina è molto brava, diligente, ordinata, amata dalla sua maestra che la porta ad esempio e sogna per lei un futuro di studio. Tutte e due le figlie di Emma indossano ogni sabato la divisa fascista da “figlie della lupa” (camicia bianca, gonnellina nera a pieghe il grande fiocco sulla testa, le scarpe tirate a lucido) e vanno alle parate, così come il Regime vuole.
Sara frequenta le colonie estive a San Francesco dove d’estate bambini come lei vengono indirizzati all’ideologia con il pretesto del gioco di squadra, dell’aria salubre, del sostegno alle famiglie più povere che non potrebbero da sole, sostenere la salute dei figli.
Nel ’42 il “grande impero” si sfascia con la caduta di Addis Abeba, il Fascismo vacilla ma rimane in piedi impoverendo ed umiliando il Paese. Ora Firenze si deve confrontare con il problema della fame, dilaga una dolorosa incertezza sul futuro della città, sul destino dei soldati al fronte, sulla sorte degli amici ebrei con le “incomprensibili” leggi razziali. Arrivano infatti le prime notizie sui campi di concentramento, lo sgomento è grande.
I tre figli maschi di Emma intanto fanno ritorno a casa: il collegio non è più luogo sicuro, si parla di una catastrofe imminente.
Infatti l’anno seguente, il’43, avviene l’impensabile: cade il Fascismo, si firma l’armistizio, siamo ad un tratto felicemente amici degli Americani… Ma con i Tedeschi in casa.
Così tutto precipita, la grande gioia si tramuta in inferno, nessuno ha più certezze sul presente e sul futuro.
1943: anche Emma vive un nuovo improvviso dolore. La cara sorella Fiammetta che abita ormai da dieci anni al Campo di Marte con il marito e Giovanna, la figlia adottiva, perde la vita. Le è fatale l’incursione aerea che nella notte del 9 di ottobre bersaglia di bombe il quartiere. Nel bombardamento muore anche Vittorio, il marito mentre la figlia si salva.
Emma sostiene l’immenso dolore soltanto perché sa che sopra a tutte le cose ci sono i suoi cinque figli. I ragazzi sono smarriti, hanno paura, soprattutto i due più piccini chiedono ora più affetto e attenzioni. Quando si alza nell’aria il suono assordante della sirena che prelude alle bombe, corrono anche loro laggiù nelle cave, insieme a tantissima altra gente, ammassata in quegli antri smisurati, da sempre amici fidati e sicuri. Ẻ quello il momento più atroce per Sara che vorrebbe fuggire al contrario, che proprio non ce la fa a stare lì, rintanata e schiacciata in mezzo a decine di fiesolani atterriti. Così se ne sta sul limitare della volta d’ingresso dell’antro e piange in silenzio.
In quei momenti vorrebbe vicino quello strano individuo un po’ scuro di pelle, con in testa un turbante al posto del regolare elmetto, quell’imponente signore gentile che un giorno le chiese del pane e che lei atterrita negò. Le disse che era un amico accampato poco lontano, proprio nel campo della villa degli Hedlmann e che era lì assieme ad altri suoi amici per proteggere lei e tutti quelli del grande casone. Poi la invitò ad affacciarsi al tramonto per ammirare il grande falò che ogni sera erano soliti fare perché le loro preghiere fossero meglio esaudite. Sara era rimasta estasiata. Ogni volta che il sole calava, si affacciava al muro della terrazza e immobile, come rapita, guardava il falò.
Ma poi Fiesole diventa uno dei fronti di guerra. Ansie e paure vanno concretizzandosi sempre di più anche negli individui più duri a piegarsi al disastro. Sotto la spinta degli alleati, i tedeschi salgono sulla collina rastrellando rinforzi per costruire difese al nuovo loro nemico italiano. Prendono tutti i più giovani e forti per trascinarli su a Nord, uccidendo chi rifiuta l’ordine. Anche Silla e Milo vengono presi ed è un nuovo immenso dolore per Emma. Tuttavia quella volta il destino è clemente: entrambi fuggono indietro e tornano giù verso casa, per mesi staranno nascosti nei fossati dei campi, aspettando una mano clemente che porti loro del cibo. Emma, con gli altri suoi figli, deve intanto lasciare la casa e insieme a gli altri sfollati, adattarsi alla vita in comune nella Villa del Salviatino o, per meglio dire, nei sotterranei di quel palazzo ospitale.
Intanto Firenze è tenuta ben sotto tiro dall’artiglieria tedesca che si è posizionata in vari luoghi: le cave, prese in ostaggio, sono piene di armi nemiche pronte a sparare.
Quei giganti, da secoli depositari dell’orgoglio fiesolano, custodi delle gioie e dei dolori di chi da essi stessi aveva fatto dipendere la propria esistenza, si erano dovuti arrendere alla brutale guerra.
Quegli smisurati amici dal ventre enorme dove fino a pochi mesi prima avevano celato centinaia di fiesolani atterriti dalla pioggia di bombe, si erano trasformati, loro malgrado, in nascondiglio di morte.
Eppure la luna lassù c’era ancora la notte a illuminare l’abbraccio delle testone rotonde, adesso cespugliosi e tetri testimoni dei tempi belli in cui Clementina si sentiva appagata in mezzo a quello scenario.
E sentivi ancora, se ti fermavi in qualche radura, quel caldo opprimente dei tempi in cui Antonio vigoroso e felice, scolpiva ritmicamente la pietra. E potevi vedere ancora il sudore, potevi sentire l’odore della fatica.
Ma se ponevi attenzione, capivi la beffa: nel folto di un bosco cresciuto a dispetto della natura del borgo, la luna faceva brillare soltanto sinistri strumenti di guerra posti goffamente nel grembo di antiche madri ridotte a minacciare di morte la loro stessa figlia.
Così quei vasti corpi straziati, non riecheggiavano più del suono di cento scalpelli, dei richiami bonari dei tanti operai, ma rimbombavano invece di incomprensibili, urlati comandi o dello stridore di pesanti metalli trascinati a fatica.
Non molto discosto da questo scenario, dentro la villa Krauss c’è il comando tedesco.
Tutta la via che da San Domenico porta alla piazza, rimbomba dei carri armati da cui scendono soldati che posizionano mine. Le mine, questi subdoli, maledetti ordigni, si prestano a stare dovunque: nei campi, negli orti, dentro le case e dentro le cose.
1944. Agosto è il mese più nero: mentre i tedeschi aspettano al varco i nemici, alleati italiani, i partigiani, cercano di intervenire più volte con attentati che spesso sono loro fatali. A volte però ci rimette qualche civile che per rappresaglia viene preso e poi fucilato. Talvolta i tedeschi, affamati, fanno razzie di animali e di cibo nelle case dei contadini, ma purtroppo non è raro che poi uccidano i derubati innocenti o stuprino donne e bambine. Gli atti eroici non mancano in questo momento: il parroco aiuta come può la Resistenza nascondendo persone braccate; i carabinieri, arma reale e pertanto a gli ordini del regime fascista, cospirano contro i tedeschi e si immolano per salvare la vita a molti civili innocenti. Famosi fra tutti Sbarretti, La Rocca e Marandola fucilati il 12 agosto al posto di ostaggi che non avevano colpe.
Tutte le alture del colle sono invase da cannoni puntati, pronti a sparare sugli alleati.
In questo mese di agosto la città tace atterrita, Il caldo è incomprensibile in questa gelida estate di morte. Firenze ormai liberata, guarda con grande apprensione le cime delle colline pronte a colpire dall’alto.
Ẻ il 27 agosto quando su San Domenico piovono granate e bombe da mortaio che mettono in serio pericolo i malati sfollati da Camerata a Villa Pisa. Romolo, nascosto nei sotterranei di Villa Papiniano trema atterrito e pensa con angoscia ai suoi poveri figli di cui non ha notizia da settimane e settimane. Lui ormai anziano, è al sicuro, ma loro dove saranno, cosa staranno facendo? E i nipoti saranno tutti in salvo? Avranno bisogno di aiuto? Romolo si scopre adesso, in questo grave momento di morte incombente, padre e nonno amoroso.
Lui non sa che i suoi cari si trovano lì, spauriti, affamati, nell’umido scantinato di un grande palazzo, nell’ombra perenne, assiepati assieme a altri cento. Al sicuro però. Non seguiranno la sorte triste di Fiammetta, sepolta insieme ai suoi affetti più cari: il marito ed il fido merlo parlante, da una pioggia maligna di bombe.
Intanto le artiglierie anglo americane aprono un fuoco violento su obiettivi che si trovano un po’ più avanti, verso Fiesole, soprattutto verso una villa che da Camerata è bene in vista: Villa Krauss, adesso sede del comando tedesco. La grande Villa Maremmi, vuota dei suoi amorosi abitanti, versa in grave pericolo…
31 agosto: ancora scoppi, ancora il crepitare delle mitragliatrici, ma adesso è un rumore lontano, il fronte è avanzato, seminando al proprio passaggio strumenti di morte, il nemico ha lasciato la nostra zona dirigendosi a monte. Adesso la bella strada che porta alla piazza è percorsa da mezzi alleati e finalmente su San Francesco, sventola il tricolore.
Così il nemico, decimato e sfinito, ha deciso di andarsene in fretta, ha ritirato i cannoni. Ḗ il primo settembre quando la guerra finisce per Fiesole, così da far respirare anche Firenze, non più sotto tiro.
Ma a quale prezzo la Madre ha salvato la Figlia?!
Quali danni ha dovuto subire la dolce collina per salvaguardare la bella Firenze?!
Camerata è in rovina, dovunque macerie, dovunque corpi insepolti, voragini, case sventrate, mine nascoste nei campi fra i frutti sugli alberi, nei soprammobili delle case, nei giocattoli dei bambini.
Ẻ questa la situazione quando, con mille attenzioni, la gente riemerge dalle cantine, da dentro i fossati, dai sotterranei di ville e conventi e attonita vede quello che resta della sua vita di un tempo.
Emma ed i figli vorrebbero correre a casa, ma devono attendere ancora: la strada, costellata di mine, dev’essere bonificata prima di far transitare i civili.
Squadre di sminatori bene addestrati, si prodigano senza tregua per snidare gli ordigni, molti perdono in questo frangente la vita: sono gli ultimi eroi dell’orrendo conflitto.
Poi finalmente arriva il gran giorno, il rientro.
Il casone è intatto (almeno all’esterno) salvo una buca all’ultimo piano da cui è passata una bomba caduta su un letto. Inesplosa.
Ma attenzione, dicono tutti, il nemico, subdolo e scaltro, può aver messo mine dovunque, pronte a brillare appena sfiorate, come in via Sant’Ansano, che erano poste dietro una porta d’ingresso, o quella nell’orto della famiglia Micheli che ha ucciso una bambina innocente.
Erano così malvagi questi nazisti, che cercavano di indovinare le abitudini delle persone abitanti nelle case che avevano occupato e facevano in modo di piazzare gli ordigni proprio là dove pensavano che gli ignari padroni di casa mettessero le mani appena rientrati.
Nell’appartamento dei padroni di Villa Maremmi, ad esempio, si erano accorti che ci vivevano dei bambini perché c’erano dei giocattoli e degli abiti che non lasciavano dubbi. Così avevano nascosto una mina dentro una bambolina di legno che muoveva braccia e gambe tirando una cordicella. Al primo tocco l’ordigno sarebbe esploso seminando la morte.
Per fortuna, consci del pericolo, nessuno osò toccare quel giocattolo e la bambina a cui apparteneva potette salvarsi.
Per il resto c’era un grande disordine, sporco dovunque, armadi e cassetti rovesciati, soprammobili rotti, pareti istoriati di nere, oscure parole, qualcosa mancava come quadri, tappeti, oggetti d’argento…
Ma che importa. Conta solo esser vivi per ricominciare la vita daccapo.
XV.
NUOVE SPERANZE
Il dopoguerra porta grande fermento, ottimismo, speranze, febbrile bisogno di ricostruire, di fare…
Emma riprende il proprio lavoro nella cucina dell’ospedale mentre i figli, cresciuti, guardano con fiducia al futuro.
Un futuro ancora nebuloso, incerto, che si fa strada tra le macerie di un’Italia distrutta, dove ancora per molto tempo la famiglia Del Serra, come la maggioranza delle famiglie italiane dovrà rimboccarsi le maniche e lavorare sodo per poter riprendere a vivere con dignità.
Si comincia dal rassettare la casa, devastata, violata in ogni suo più intimo angolo. I figli maschi di Emma imbiancano le pareti, aggiustano i mattoni sconnessi del pavimento, riallacciano la corrente e l’acqua. Le donne igienizzano tutto: coperte, lenzuola, tovaglie…Rimettono in mostra i centrini ricamati a mano, recuperano le bellissime tende cucite dalla loro mamma finché tutto profuma di fresco, ogni stoviglia brilla come se fosse appena acquistata.
Si rifanno dai vecchi, nuovi vestiti, si cerca di dare un volto nuovo a ogni cosa.
Romolo, l’ormai ultrasettantenne padre di Emma, deve lasciare la Villa Papiniano: nuovi padroni esigono braccia fresche per lavorare nella loro vasta proprietà! Così l’uomo, che non intende per niente al mondo perdere la propria autonomia rispetto alla famiglia della figlia, cerca un altro luogo dove poter vivere ancora lontano dai suoi naturali affetti. Ed è proprio per intercessione di Emma che viene assunto come giardiniere dalla baronessa Ada Gatti Kraus. Vivrà in quello splendido ambiente occupando un minuscolo alloggio, solo per sua precisa scelta, fino alla fine dei propri giorni.
Dovunque, a Fiesole come a Firenze, c’è un continuo fermento per sbarazzarsi delle macerie, la città rivuole i suoi ponti che con progetti azzeccati riotterranno il loro antico splendore nell’arco di circa un decennio.
Nel frattempo si vota.
«Si vota?»
L’incredulità è palpabile, dovunque la gente ragiona, fa congetture:
«Non sarà un’altra beffa come quella che Mussolini architettò nel 1925, quando concesse il diritto di voto anche alle donne alle amministrative e poi l’anno dopo istituì il podestà, incaricato dal governo fascista?»
«Già, e così mandò a gambe all’aria il sindaco e le elezioni!»
«E poi figurati se faceva votare le donne! Lui ci voleva tutte coniglie, altro che politica! Aveva anche la Chiesa dalla sua, il Papa ci voleva “angeli del focolare”: lavare, cucire, sferruzzare, cucinare, figliare!»
«Eh sì, invece col cavolo che si vinceva la guerra senza noi donne!»
«Comunque adesso è diverso» dicono le donne più informate, quelle che erano state le partigiane attive, quelle della Resistenza, le madri, le sorelle, le mogli dei tanti uomini cancellati dal conflitto.
«Ora il Partito Comunista è forte e potente; Togliatti ha convinto anche De Gasperi che le donne hanno gli stessi diritti dei maschi».
«Avete letto quell’opuscoletto di Laura Lombardo Radice, quello intitolato Le donne italiane hanno diritto di voto?»
Il piccolo libro passa di mano in mano e molte ne citano i passi salienti, si fanno staffetta per diffonderne i contenuti.
Così la consapevolezza dei propri diritti da parte del popolo femminile, si ramifica in ogni contesto sociale.
Emma con la giovane Mila e con Sara, ancora adolescente, si nutre di questi nuovi principi che circolano nella cucina dell’ospedale, nelle botteghe, fra la gente del grande “Casone”.
«Le mie compagne del Sant’Antonino voteranno tutte compatte, dalla prima all’ultima; figliole, bisogna far così anche noi se si vuole vivere in pace da ora in poi, bisogna prenderle in mano noi donne le briglie dell’Italia perché gli uomini da soli non ci sanno fare, si lasciano manipolare da chiunque, fanno i forti con noi perché ci credono incapaci di capire i problemi del mondo» Comunica Emma alle figlie.
Ormai tutte sanno che anche l’atteggiamento del Papa sul ruolo delle donne è cambiato: finalmente ha capito che se si vuole scongiurare il ritorno a un regime che uccide l’insegnamento di Cristo, che nega ogni uguaglianza ed ogni libertà, occorre lo sforzo di tutti: uomini e donne. Occorre lo stesso rispetto per tutto il genere umano.
In questo clima Fiesole con le sue donne riporta Luigi Casini a governare la propria città, il buon sindaco socialista, perseguitato dai fasci, merita il loro consenso. Ẻ il 10 marzo 1946.
Il 2 giugno dello stesso anno in tutta Italia si chiede il parere dei cittadini sulla sorte del regno: mandarlo ancora avanti o abolirlo per sempre a favore di una nuova repubblica?
Questa e davvero la svolta: le donne di Fiesole ancora di più dimostrano il proprio impegno, la compattezza, la volontà per essere le attrici protagoniste del nuovo corso della storia.
Emma è una di loro, una combattente coraggiosa e infaticabile che non ha mai preso in mano le armi, ma che il Fascismo e il destino stesso hanno costretto ad un’altra battaglia per anni, senza tregua.
Emma è una giovane donna che sa di avere diritto a una vita migliore, che vuole per i propri figli, che ha custodito ed accudito in nome del suo grande amore, un futuro di pace.
Emma si reca a votare in quella che fu la sua scuola. Con lei affluisce alle urne un numero enorme di fiesolani, il 92 per cento! Il 75,5 per cento delle preferenze, compresa quella di Emma, va alla Repubblica.
Il vecchio sindaco Luigi Casini nel frattempo può riprendere il suo posto riavviando quella condotta politica che era stata tranciata di netto vent’anni prima e che adesso si è fatta più forte che mai.
Subito il sindaco si impegna a rimuovere le macerie, togliere le mine, riattivare le linee elettriche. Pensa poi alla cultura, facendo riaprire il Museo Bandini. Fa cancellare una serie infinita di scritte sui muri che spesso e volentieri inneggiano al passato regime, o colpiscono con parole pesanti singoli cittadini. La sua è una vera e propria battaglia contro quei graffiti che imbrattano la città in ogni suo scorcio. Emana ordinanze contro l’abbandono di rifiuti a Maiano e a San Francesco. Si batte per il ripristino del filobus diretto per Firenze chiedendo di eliminare le lunghe
soste sul tragitto. Casini scrive al suo omologo di Firenze chiedendo che “l’ATAF trovi modo di levare dalle vetture che fanno il servizio di Fiesole quelle brutte decalcomanie réclame sui vetri che impediscono la vista che si gode delle nostre strade”.
La stima dei Fiesolani per il loro primo cittadino aumenta ogni giorno, innescando così quell’ottimismo, quella voglia di fare, di crescere, di migliorare che determina in tanti un tenore di vita migliore.
Tutti adesso lavorano anche in casa Del Serra: Mila e Sara fanno le sarte, Silla è un bravo aiutante topografo, Milo lavora nella sartoria teatrale più importante di Firenze, la famosissima Sartoria Teatrale Fiorentina. Disegna e realizza ricami finissimi, per diletto esegue ritratti e paesaggi a carboncino o a matita. Ugo, il più piccolo, è stato assunto nel ristorante Da Mario in paese e apprende l’arte del cuoco.
I ragazzi si godono adesso le prime spensieratezze dopo anni ed anni di grigia sopravvivenza, in casa entra la radio che incanta con quella musica americana frizzante ed allegra oppure fa sognare con canzoni d’amore struggenti. Adesso la casa è più amata e si cerca di renderla sempre più bella: in terrazza si mettono i fiori e il sabato si lucida il pavimento con la cera.
La domenica invece è adesso il giorno agognato per andarsene a spasso in città o al cinema oppure a ballare in qualche nuovo locale del centro.
Il morale è alle stelle, tutto appare come una favola nuova. Finalmente il cuore non batte più per paura perché vuole fuggire, ma perché si commuove leggendo un fotoromanzo, guardando una scena d’amore in un film o per pura attrazione di una lei o di un lui di cui si è invaghito.
Ẻ Milo il primo a trovare l’amore. Lei viene da un paese di mare, in Versilia ed è qua perché fa l’operaia in una fabbrica di saponi e profumi. Ẻ minuta, carina, con una vocetta che incanta, si chiama Mina, I due inizieranno la vita insieme a Firenze nel 1949, il 27 febbraio.
Mila, la sorella maggiore, se ne va l’anno seguente con Aldo, un bravo artigiano che intarsia bracciali ed anelli d’argento con miriadi di pietruzze e perline.
XVI.
PASQUALE DETTO NINO
Ma il compagno più esotico arriva per Sara.
A sedici anni lei è una ragazza piena di vita, con tanti interessi, legge libri, disegna, recita in qualche commedia messa su presso la Casa del Popolo di Fiesole. E poi ama andare a ballare, per questo nei pomeriggi della domenica prende il filobus con qualche amica e si dirige in una delle sale da ballo in città.
Il ritrovo che predilige è quello in piazza Puccini, che era nato prima della guerra per le operaie della Manifattura Tabacchi che si trova lì vicino. Ẻ un bel locale ampio, sempre pieno di gente, un posto che mette allegria e induce a sognare con quella musica in voga suonata ad alto volume.
Ẻ proprio qui che la vita di Sara ha una svolta.
Nella sala da ballo da un po’ c’è un ragazzo in divisa che non le stacca gli occhi da dosso.
Ẻ un tipo un po’ scuro di pelle, capelli ondulati nero corvino. Ha una corporatura tarchiata, dalle spalle larghe su cui spiccano mostrine dorate. Il volto è piuttosto rotondo, con gli occhi allungati, vagamente orientali, che spiccano neri dalle palpebre socchiuse come fessure. Le labbra sottili nascondono dentro un sorriso, il bianco dei denti appena accennato. Ẻ un ballerino provetto e Sara s’incanta a guardarlo. L’uomo ha un aspetto pulito, curato, emana profumo di fresca lavanda.
Ẻ un ragazzo di 22 anni, originario del Salento, per la precisione di Galatone, un paese della provincia di Lecce.
Dopo l’armistizio, ha lasciato la sua Puglia per aggregarsi come volontario all’esercito del generale Alexander che dopo l’8 settembre stava risalendo l’Italia per liberarla dall’oppressione nazifascista.
Nino aveva compiuto quel passo mettendosi contro tutti, eludendo il consenso del padre che pur ci sarebbe voluto essendo lui minorenne.
Finita la guerra aveva deciso di non fare ritorno a casa, ma aveva preferito “mettere la firma” per continuare a servire la patria come Agente della Polizia Stradale.
Non si è trattato di una scelta per denaro: la sua famiglia è piuttosto benestante, possiede un forno in paese che produce pane e dolciumi molto apprezzati; possiede ben due appartamenti proprio nel Centro di Galatone.
Tuttavia i rapporti fra il padre ed i suoi numerosi figli (ben sei) non sono cordiali. Lui, ancorato al passato, pretenzioso e saccente, basa il proprio comportamento sul modello del “padre padrone. Ẻ il tipo che toglie la libertà di azione e di pensiero senza nemmeno immaginare il danno prodotto sui figli.
Pasquale, che tutti chiamano Nino, è il primogenito della famiglia, frutto della “fuitina” che sua madre aveva fatto a soli sedici anni per poter sposare suo padre, quel bellissimo uomo che molto presto avrebbe annientato ogni volontà della giovane donna.
Nino aveva vissuto di mare, di sole, di fichi d’india appena staccati da pale giganti.
Aveva frequentato la scuola fino all’avviamento, aveva grande dimestichezza con i numeri, grande attitudine per il ragionamento.
Da quando era partito per la Resistenza, non aveva più visto i tre fratelli più piccoli e le due sorelline.
Questo lo turbava fortemente.
Tuttavia Nino aveva mantenuto un solido legame epistolare con tutti. Così in breve tempo, viene a sapere che nessuno dei fratelli è rimasto a Galatone, tranne Lidia, la sorella più grande. Luigi se n’è andato in Val d’Aosta, Benito in Svizzera e Antonio, il fratello più amato, si è arruolato in Marina. Ernestina, l’altra sorella, è partita per Napoli con il marito.
Tutti quindi, con il pretesto di un lavoro o di una esistenza migliore, hanno lasciato la bella terra del Salento.
Nel momento in cui conosce Sara, Nino vive a Firenze, alloggiato dentro la Caserma Fadini.
Ẻ fiero del lavoro che ha scelto, tanto che non toglie mai l’amata divisa, compresi i giorni di libera uscita perché quell’indumento per lui è simbolo di libertà.
Fiero, circola con la moto d’ordinanza, attirando lo sguardo di molte.
Sara è rapita da questo giovane aitante e presto si innamora, ricambiata.
Il sentimento divampa immediatamente fra i due che vivono felici i primi appuntamenti nella sala da ballo di piazza Puccini, o in piazza Duomo, davanti al Bottegone, sennò a San Marco, per prendere un gelato.
Che meraviglia starsene lì abbracciati nella città distesa e quieta dopo gli anni più bui, con le risate della gente intorno, le luci dei negozi, le vetrine invitanti…
Per lui Sara diventa subito la passione travolgente, la ragione di vita, così si attacca a lei morbosamente, tanto da darle a volte un senso di soffocamento.
Purtroppo Nino non è ben visto dai fratelli della ragazza:
«E’ un poliziotto, uno che simpatizza quindi per le azioni di forza, per l’affermazione del potere con mezzi coercitivi, lontano miglia e miglia dal nostro ideale socialista» Argomentano i due ragazzi Milo e Silla, formatisi nell’ideale antifascista.
«E poi è un meridionale, gente incivile, chissà chi sono i suoi, chissà come viveva quest’uomo giù in Salento!» Insinuano ancora i due fratelli, sinceramente preoccupati per il futuro di quella giovane ragazza.
Ma anche dalla parte di lui la famiglia è ostile:
«Una del Nord, una fiorentina, sicuramente frivola, leggera, di certo una che va con tutti, una donnaccia» Osservano accecati da preconcetti assurdi padre e madre di Nino.
Ma si sa, il vero amore non conosce ostacoli, così il rapporto fra i due giovani procede forte nonostante tutto.
Lui dopo due anni passati alla Stradale, ottiene il trasferimento alla Pubblica Sicurezza: niente più moto di grossa cilindrata da esibire, ma un lavoro basato sull’ indagine, sulla ricerca di indizi, sul salvataggio di innocenti e lo smascheramento di furfanti.
Per poter stare ancor più accanto a Sara, Nino lascia la sua caserma e affitta una camera presso la signora Ersilia, in via Ferruzzi all’otto. La casa confina con quella dell’amata.
Sara per il bene di Nino, abbandona il teatro che rappresentava per lei la più importante valvola di sfogo.
Un forte sacrificio dunque, grande gesto d’amore.
Da quel momento lei domerà con fatica quel suo carattere impulsivo, mutevole, talvolta un po’ ribelle che lui subirà tutta la vita con pazienza.
Sarà un fidanzamento lungo quella di Nino e Sara: va avanti fra calma piatta e burrasche, per ben cinque anni, il tempo necessario affinché Nino, come regolamento d’ordinanza vuole, compia i sui ventotto anni. Il tempo necessario per mettere insieme un po’ di denaro con cui preparare il matrimonio, il tempo che ci vuole perché Sara prepari il corredo e si attacchi ogni giorno un po’di più a quel ragazzo affascinante del Sud.
XVII.
IL MATRIMONIO DI SARA E PASQUALE
Il matrimonio viene fissato per il cinque settembre 1953. Intanto i due promessi cercano casa…
I primi anni ’50 non sono anni facili: dopo la guerra la ricostruzione è appena avviata, molto è ancora distrutto, tante famiglie vivono raggruppandosi insieme in angusti locali, molti sposi novelli convivono con i genitori. Per Sara e Nino la soluzione arriva insperata: una camera con uso cucina in affitto, proprio accanto alla casa di Sara, al numero 4. I due giovani sono davvero felici. Non vedono l’ora di coronare quel sogno accarezzato per anni ed ora finalmente ad un passo.
E arriva il cinque settembre. Quel giorno Sara è radiosa in quell’abito bianco che le mette in risalto il volto perfetto, dai lineamenti scolpiti con delicatezza, incorniciato dai folti capelli corvini. Lo ha cucito per lei la cugina Giovanna, la figlia della sfortunata sorella di Emma, deceduta in quel maledetto bombardamento durante la guerra di liberazione…
L’ abitino è semplice, dal corpetto attillato, abbottonato davanti fino al colletto aperto come quello di una camicetta. Dalla vita parte un’ampia gonna di raso costellato qua e là da mazzi di fiori in rilievo. Il velo di tulle parte dalla ghirlanda di fiori d’arancio posta sulla testa e scende fino ai fianchi, vaporoso ed elegante. Sara tiene stretto in mano il suo mazzolino bianco formato anch’esso, come la ghirlanda, da una miriade di fiori d’arancio.
Nino veste un elegante doppio petto grigio chiaro con gardenia all’occhiello. La coppia lascia tutti a bocca aperta per la raffinatezza dell’abbigliamento.
La chiesa della cerimonia è quella di San Francesco, su, in cima alla collina. Lì Sara ha una guida spirituale preziosa: fra’ Clementino che l’ha sempre sostenuta fin da quando era poco più che bambina. Lì la coppia raccoglie pochi invitati: parenti di lei, vicini di casa, nessuno da parte di Nino, vivono tutti troppo lontano. Pazienza!
Alla fine della funzione religiosa la festa s’infiamma, il riso, prima nascosto in sacchetti di stoffa, esplode gioioso coprendo gli sposi. I tanti bambini lasciano finalmente l’imposto contegno che tenevano in chiesa, scorrazzando sul sagrato, morbido tappeto di fresca erba verde.
Qualche foto di rito, poi tutti in piazza, al rinfresco.
Il banchetto all’Aquila Nera, è festoso, reso radioso da una stupenda giornata di sole.
A sera finalmente arriva la pace, si placa la baldoria, i due sposi restano finalmente soli. Adesso li attende il sospirato viaggio di nozze; Sara, mai uscita dalla Toscana, è molto agitata, vive con ansia l’incontro con i suoceri, previsto fra le tappe del viaggio, ma Nino, con grande amore e premura, la rassicura e sostiene.
Cattolica, Rimini e poi giù, tutta la costa adriatica ammirata da un treno che arranca ansimante, stracolmo di gente assonnata, con valigie legate da corde, strapiene di “cose” del nord, destinate a chi è rimasto laggiù, a chi non ha avuto il coraggio di emigrare e ora forse soffre la fame. Un treno stracolmo di odori e di umori di chi stanco ritorna al paese per qualche giorno di ferie strappate a fatica a qualche ricco imprenditore del nord.
Sara osserva stupita quella nuova realtà sconosciuta e si sente straniera.
Finalmente al mattino, l’arrivo. Lecce si svela grandiosa agli occhi di quella giovane donna. Le sue strade, le piazze, le chiese, tutto biancheggia di tufo; la città ha un aspetto elegante, accogliente; lei, sorridente, si stringe al suo Nino.
Poi salgono sulla corriera e arrivano. Galatone è raccolto attorno a una stupenda fortezza normanna, è colmo di chiese e fontane, circondato da sterminati campi di olivi giganti e fichi d’india costellati di frutti carnosi.
La bianca casa di Nino si trova nel centro. Vi si accede da un androne con arco per poi ritrovarsi in una grande, luminosa cucina. Accanto il soggiorno. Le camere sono al piano di sopra, pulite e fresche nonostante la vampa di caldo là fuori. Nino presenta orgoglioso la sposa novella ai suoi familiari, dando il via ad una serie di strette di mano, di baci e abbracci piuttosto imbarazzanti per Sara, dal carattere schivo e riservato.
I giorni di permanenza a Galatone non saranno positivi. Sara si sente costantemente osservata, giudicata da persone il cui linguaggio è spesso sconosciuto. Nino viene preso da parte dal padre che gli comunica senza rispetto, il suo dissenso per quella donna del nord, sicuramente frivola, poco per bene. Nino dissente con forza e difende la sua dolcissima amata: – Lei è una ragazza per bene e sarà il tempo a dimostrare quanto Sara sia una persona meravigliosa.
La ripartenza avviene in tutta fretta, li aspetta Roma con la sua imponenza, con la bellezza antica dei palazzi, delle basiliche dei grandi viali e con quella sua gente accogliente e sempre ben disposta, che rinfrancano i cuori dei due giovani sposi.
XVIII.
SILVIA
Tornano nella loro nuova casa a fine mese. L’inverno che verrà sarà speciale perché promette l’arrivo a breve del loro primo erede.
La gestazione si svolge serena e senza intoppi, Sara prepara il corredino aiutata da mamma Emma: golfini, scarpette, camicini. E poi lenzuoli e federe, coperte, cappellini, tutto confezionato a mano con sapiente cura. Anche la culla viene allestita dai due futuri genitori con una cesta di paglia imbottita e foderata con un puro cotone a righe bianche e verde chiaro, corredata da un tulle che la ricopre tutta contro i molesti insetti che potrebbero disturbare il futuro bambino. Un tulle molto speciale, che apparteneva al velo dell’abito da sposa della futura madre.
Ẻ l’undici luglio 1954 quando Sara avverte le prime doglie, accorre la signora Smeralda, la levatrice, perché il bambino nascerà in casa, dove l’igiene è maggiore, dove le cure sono più attente.
Il travaglio dura ore e ore, interminabili ore che Nino trascorre con il cuore in gola, col fiato sospeso.
Il bambino non riesce ad uscire, il cuore di Sara stremato, rallenta, occorre un dottore prima che avvenga una tragedia.
Nino chiama un’ambulanza che subito accorre, lei, in pochi minuti è in ospedale, il parto è imminente. Col forcipe il medico afferra la testa ed estrae il corpicino.
Ẻ una bella bambina.
La neomamma, stremata, si abbandona sul letto felice.
L’avventura iniziata tragicamente è finita in bellezza, Nino piange sconvolto dalla gioia.
La chiameranno Silvia.
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INDICE
INTRODUZIONE
I | ANTONIO DUCCI E LE CAVE | |
II | CLEMENTINA | |
III | SESTILIA | |
IV | ROMOLO E LAURA | |
V | MORTE DI LAURA | |
VI | ASSUNTA OTTANELLI | |
VII | LO STRANO MATRIMONIO | |
VIII | ARRIVA LA GUERRA | |
IX | ANGIOLO DEL SERRA | |
X | GRANDI CAMBIAMENTI | |
XI | VIA BENEDETTO DA MAIANO | |
XII | VILLA MAREMMI E LE BREVE VITA DI ANGIOLO | |
XIII | VEDOVA CON CINQUE FIGLI | |
XIV | VITA DURA VERSO UNA NUOVA GUERRA | |
XV | NUOVE SPERANZE | |
XVI | PASQUALE DETTO NINO | |
XVII | IL MATRIMONIO DI SARA E PASQUALE | |
XVIII | SILVIA |
Fiesole 2021