Il mio nome è Mira, sono nata a Sarajevo, vivo in Italia da quasi 30 anni.
La mia città è sempre stata bellissima: allungata ai piedi delle Alpi Dinariche, fra colline dolcissime dove si snodano stradine labirintiche e irrigata dal piccolo Miljacka, l’affluente del più famoso e grande Bosna; il mite Miljacka, sempre docilmente nel suo letto, sempre splendido decoro per la mia terra. Ne ha vista di storia il mio fiume! Le sue acque si sono spesso sporcate del sangue di eroi o di usurpatori di altrui libertà, testimoni di ignobili guerre che avrebbero cambiato il volto del mondo.
La mia città dal grande cuore cosmopolita, dove chiese ortodosse o cattoliche e moschee si danno la mano, dove le sinagoghe dei tanti ebrei che hanno convissuto con i padroni ottomani spuntano radiose un po’ dovunque; la mia città socialista, con i suoi palazzoni grigi ma che strizzava l’occhio all’occidente, non scordandosi mai di sorvegliare il cielo e le sue provvide stelle dallo stupendo osservatorio, su in collina. La mia città centro di un mondo di disuguaglianze, ma costellata da innumerevoli ponti.
La mia splendida terra contesa, strappata, azzannata, dilaniata da pretendenti diversi, bastonata e piegata da occasionali carnefici, ma mai totalmente spezzata.
Io abitavo in una grande via del centro storico, al terzo piano di un elegante palazzo dalla facciata chiara, con grandi finestre affacciate su quella via sempre piena di gente, indaffarata ad acquistare nei bei negozi situati a terreno abiti, borse, belletti, dolciumi. Ricordo, durante la bella stagione, le sedie e i tavolini dipinti a colori sgargianti, spiccare sul grigio del marciapiede e mi ritornano in mente le chiacchiere, le risate di gioia, la vita tranquilla e serena dei miei concittadini ignari del loro futuro.
Dell’ultima offesa Sarajevo porta ancora i segni evidenti, tatuati nei cuori e negli animi dei suoi sopravvissuti, testimoniati dalle innumerevoli “rose”, singolari pietre d’inciampo segnalate al passante col rosso, a ricordo del sangue innocente versato.
E poi il bianco, il bianco accecante lassù sulla sommità della collina, recente monumento ai molteplici eroi.
Io nacqui quando il nostro mondo era quieto, quando, dopo gli orrori della seconda guerra, si stava tutti insieme in una coercitiva fratellanza sapientemente manovrata. In questo clima crebbi, mi formai, presi un diploma ed una laurea in psicologia; poi mi sposai ed ebbi due figli.
Intanto nel mio Paese un ideale losco covava: l’abile “sovrano in rotta con il Patto di Varsavia” se n’era andato nell’’80, lasciando aperto il varco a gli ideali di Nazionalismo, bieca caratteristica del genere umano, più incline ad assopirsi che a morire. Così, nello stesso decennio in cui sognavo e preparavo il mio futuro favoloso, la mia Terra si avviava al suo rovinoso declino.
Fu l’arrivo di un altro folle dittatore del nuovo Paese confinante ad infiammare gli animi, a dividere, ad innescare l’odio per cui la mia città pagò il pegno più alto in quell’anno maledetto: il 1992…
Tutti volevano la libertà, tutti si sentivano unici, diversi, liberi e sovrani nei loro nuovi Stati, piccoli, vani orticelli, ciascuno un po’ peggiore di quello del vicino… Così iniziò la prevaricazione, le religioni una contro l’altra ferocemente armate, i confini contesi e infranti, fino al più sordido delitto, alla più vergognosa delle colpe: la mia città per lunghi anni assediata, bruciata, stuprata.
Ero impotente, avevo perso i sogni.
Era la primavera del ’92 quando un esercito formato da fratelli, ci circondò e ci fece prigionieri; si cominciò a sparare sui civili, sui cortei per la pace, su chi tranquillamente era al mercato. Donne violate, bambini resi orfani dall’inutile, immorale conflitto.
Così tutti capirono: era il momento di mobilitarsi, di lottare, di riaffermare i sacrosanti nostri diritti, Diritti umani, ingiustamente calpestati.
Ma io ero la madre di due piccoli bambini e non potevo ribellarmi apertamente, affrontare il peggio e morire, li dovevo salvaguardare, dovevo in qualche modo strappare le radici e andare via.
Venni a sapere che c’era un corridoio umanitario messo su fra innumerevoli disagi, io non volevo, ma mio marito, un ingegnere chimico affermato, mi spinse a fare il grande passo verso il futuro ignoto, ma pur sempre di pace. Lo salutai piangendo, presi i miei figli e andai.
Ci imbarcammo su un aereo voluto lì dall’ONU e in poco tempo giungemmo in Italia, a Napoli, nella città accogliente e generosa dove rimasi lunghi anni, senza mai chiedere asilo perché ho sempre sognato in cuor mio di ritornare a casa, un giorno.
Trovai, grazie ad alcuni miei benefattori, un alloggio in un piccolo paese dell’Irpinia ed un lavoro in fabbrica, distante dai miei studi, ma pur sempre dignitoso.
La gente era cordiale, accogliente, capiva bene cosa vuol dire distruzione e morte dopo il terremoto dell’’80, anche loro erano stati in mezzo alle rovine, ci avevano rimesso casa e lavoro, avevano perduto congiunti e amici e tutto ciò li aveva resi ancor più umani. Per tutto questo io e loro ci sentivamo accomunati dalla memoria di eventi disperati.
Mandavo i miei figlioli a scuola: erano bravi, si facevano onore e fu grazie agli scugnizzi che impararono a parlare in italiano; dopo il liceo si sono laureati, uno vive a Firenze ed è avvocato l’altro è ingegnere a Roma.
Ma la mia tregua, pur salvifica, veniva quotidianamente funestata dalle notizie tragiche che mi giungevano dai telegiornali: ogni giorno vedevo le rovine della mia cara patria, gente affamata, persone a vendere i beni di famiglia in cambio di una patata o un po’ di pane, la neve il freddo, i cimiteri improvvisati ovunque, la desolazione.
Piangevo calde lacrime e pensavo a mio marito, obbligato a servire con la sua competenza di ingegnere chimico affermato, quel diabolico esercito non certo appartenente al genere umano.
Non potevo contattarlo non potevo sapere il resto della mia famiglia che fine avesse fatto: i signori della guerra avevano vietato ogni contatto, stavo sospesa nella mia ovattata sosta con il cuore a metà fra le gioie dei figli e gli affetti feriti lontani miglia e miglia.
Fu nei primi mesi del ‘96 che arrivò la notizia che da sempre sognavo: era stato firmato un accordo per mettere fine alla guerra, grazie al mondo intero che si era mobilitato.
Come gli altri milioni di profughi e sfollati simili a me, cercai immediatamente di tornare.
Non fu una cosa semplice partire perché di gente come me ce n’era tanta, ma finalmente trovai posto a bordo di un traghetto e poi su un treno.
Durante la lunga traversata di un Adriatico placido e disteso, vedevo come in un film la mia adorata casa, le strade i ponti, i volti di chi amavo, sentivo le loro voci allegre risuonare in testa, non consideravo l’evento della guerra, non lo volevo ammettere, così arrivai tranquilla.
Mi ritrovai ad un tratto in un mondo surreale, spettrale, ignoto, la tregua lasciava il posto a un incubo da cui sarei voluta scappare.
Dovunque calcinacci, auto saltate, carcasse di animali morti per terra. E poi c’era chi andava alla ricerca disperata di un figlio, di un marito, di un fratello con la sua foto stropicciata in mano. Negozi con le saracinesche bucate, piccoli mercatini improvvisati per ricavare, magari barattando, qualcosa da mangiare.
Non avevo parole, gli occhi sbarrati, registravano umidi quell’apocalisse come se fosse stata fantascienza.
Il cuore non batteva più.
Il mio caro marito lo ritrovai malato, semidistrutto da una cattiva malattia che se lo portò via l’anno seguente.
Poi venni a sapere di Srebrenica e lì mi raggelai. Presi una foto anch’io dei miei congiunti ed iniziai a cercarli con affannosa, affranta cura.
Fu la ex commessa di un negozio di pelletteria, che si trovava vicino alla mia vecchia casa, ora distrutto, a darmi la notizia ormai insperata: Il resto della mia famiglia, mio padre, mia madre mia sorella, erano in salvo presso nostri amici in un piccolo paesino di montagna della bella Slovenia.
Questa notizia mi sollevò un po’ l’anima, ma la distruzione e la desolazione ormai le avevo dentro.
Prendemmo un appartamentino di fortuna, dove assistetti per un anno il mio coniuge infermo, mentre col cuore spezzato pensavo ai miei ragazzi adolescenti, ignari di quella dolorosa verità in cui la loro madre e il loro padre stavano lottando.
Quando rimasi sola, decisi di riandare.
Tornai in Italia nel 1998.
Da allora mi sono dedicata al prossimo, lavorando per i malati, per gli anziani, per tutta quella gente che ha bisogno di affetto, di compagnia, di qualcuno che possa tendergli una mano; ho sistemato tutti e due i miei figli, studiosi, meritevoli ragazzi che forse un giorno potranno ritornare…
Io adesso vivo col mio passato dentro, nella serenità della mia tregua.
Bellissimo racconto!
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