Magia di un incontro
La grande villa era da secoli adagiata sul fianco rotondo e sodo della collina, perennemente esposta ai capricci del tempo.
Ai suoi piedi la grande città, luccicante di giorno per il sole che si rifrangeva sulle mille e mille finestre; luminosa la notte per le innumerevoli lampade accese in case, strade, negozi.
Talvolta, se il vento soffiava da Sud, potevi sentire certi rumori di fondo, testimoni dell’operosità cittadina e poi le campane del Duomo o lo sferragliare del treno e il suo fischio quando giungeva in stazione.
La domenica poi, dallo stadio era tutto un tumulto di gente inneggiante alla squadra del cuore.
Alle spalle la villa si sentiva protetta da rocce possenti costellate qua e là di ameni boschi di querce, cipressi, profumatissimo alloro.
Ogni tanto nel fitto scorgevi una radura verdissima dove, a seconda della stagione, poteva spiccare il bianco tenero di pratoline affamate di luce, il delicato giallo di cespi di anemoni, l’azzurro violaceo del fiore di malva o il rosso intenso dei papaveri, segno d’estate.
La villa si trovava nel centro di un grande giardino dove potevi goderti per ore il verde squillante del prato inframezzato da siepi di bosso.
Era abbellito da rose dal penetrante profumo, dalle grandi azalee di tutti i toni del rosso e del rosa. Qua e là qualche mandorlo, un noce, il nocciolo.
Tutto intorno la villa era protetta da mura imponenti, sormontata da cocci di bottiglia aguzzi e taglienti su cui anche solo un fringuello, seppur leggerissimo, avrebbe potuto ferirsi una zampa.
L’accesso era un unico, enorme cancello in ferro battuto, perennemente sprangato all’interno.
L’arredamento barocco ridondava di oggetti “pesanti”, stuccati, smaltati, dorati, istoriati di riccioli e intagli.
Nella camera della signora, abitante unica e sola di tutta la villa, troneggiava un antico specchio da tavolo, tondo, con cornice di legno dorato costellato di intarsi in corniolo.
Era questo l’amico fidato di quella donna isolata dal mondo, chiusa lì per sua scelta da quando decise che il mondo là fuori era ostile.
Lo specchio era posto davanti al grande finestrone aperto sulla città sottostante di cui ogni giorno registrava fatti ed eventi, riportava le mille emozioni, le gioie, i dolori di quanti vivevano e agivano nel grande e misterioso luogo simbolo di aggregazione.
Così dentro quella cornice la donna vedeva ogni giorno riflessa la vita che aveva alle spalle e fantasticava immaginando improbabili storie.
Talvolta chiudeva le imposte e allora guardava sé stessa nell’immagine che idealizzava.
Un volto altero, dall’ovale perfetto, la pelle delicatissima e chiara che al tatto pareva velluto; la fronte alta e spaziosa sormontata da una criniera folta di capelli di rame. Gli occhi piccoli e azzurri, spiccavano in tutto quel chiaro assieme alle piccole labbra color rosso fuoco. Lei si vedeva così, con il collo lungo, da cigno, con il nasetto all’insù e una buchetta sul mento, tirabaci perfetto.
Così era la donna mezzo secolo addietro. Allora era sposata con un ricco signore, imprenditore affermato che aveva acquistato quella villa in collina per lei. Il matrimonio però durò poco: lui aveva il vizio tremendo del gioco e passava le notti a giocare a poker, puntando astronomiche somme in denaro. Lei che sapeva, si consolava comprando vestiti firmati e gioielli. Ci volle ben poco a perdere tutto e finire in miseria. Fu così che i due erano giunti al divorzio che si era risolto con lui sotto i ponti e lei detentrice dell’unico capitale rimasto: la villa in collina.
La donna, ormai settantenne, aveva fermato il tempo ai suoi giorni felici, trasformando così quello specchio, in una sfera dal contorno convesso di cristallo.
Ogni giorno appena il sole era alto, spalancava l’enorme finestra e sedeva davanti a quel magico oggetto dove vedeva riflessa la sua vita immaginata….
E mentre dava le spalle a piazza Signoria adornata dal suo Palazzo Vecchio e la Loggia dei Lanzi, appariva riflessa nella sfera, una miriade di gente variegata, indaffarata, che correva, che urlava, che rideva sguaiata. Erano persone che si recavano al proprio lavoro, o a scuola, o a fare la spesa, o ancora turisti accorsi ad ammirare i bei palazzi fiorentini, le sue stradine strette, le sue chiese Ma la signora, in mezzo a quel trambusto, notava invece una figlia dei fiori che cantando a squarciagola una canzone inneggiante alla pace, sventolava la bandiera con la faccia del CHE. La giovane era attorniata da uno stuolo di coetanei con vestiti variopinti, urlanti, con simboli di fratellanza, di libertà, di tolleranza, stampati su cartelli giganti, sugli abiti, sul viso…
-Anche oggi una manifestazione per cambiare il mondo! -Esclamava la signora sospirando.
-Ah se soltanto qualcuno vi ascoltasse, invece qua va sempre peggio. Persistono categorie diverse, i ricchi e i poveri, giovani e vecchi, i bianchi e i neri, buoni e cattivi e tante tante altre dicotomie perverse; se le vorrete superare, dovrete urlare tanto e poi chissà se il tempo vi darà ragione… Ma voi siate caparbi, andate avanti, credeteci davvero in un mondo migliore! Non fate come me che mi son chiusa in questa gabbia d’oro.
Poi la signora alzava un poco gli occhi, guardando proprio di fronte, verso Boboli e lì vedeva decine e decine di giovani aggirarsi nei giardini: sognanti, vaghi, placidi, come rapiti da un impalpabile mistero. Persone innamorate della natura circostante, o di una donna, o un uomo, studiosi di piante rare nate e cresciute unicamente in questo luogo più simile al giardino di una fata che a un parco pubblico di una città moderna.
Ma lei si ritraeva con sospetto: -Ma guarda un po’ che gioventù perduta- Esclamava preoccupata -Son tutti a fumare marijuana e a bucarsi, una vera sciagura per loro e per l’intero mondo! E qui chiudeva la finestra spaurita, poi si sedeva sul suo divano di velluto rosa, sorbendo una calda tisana rilassante.
Certe volte, al tramonto, amava rivolgere il suo sguardo un po’ più a sinistra, là dove l’Arno si insinua dentro le Cascine come un lungo serpente d’argento. In quella manciata di minuti in cui il sole si appresta a darci la buonanotte, quell’angolo della città è stupendo: la grande macchia di verde cupo, circondata dal bianco delle molteplici abitazioni sorte fra via Baracca, piazza Puccini e l’Isolotto, risulta illuminata da una luce radente che acceca e stordisce. Ogni finestra, ogni veranda qualunque lucernario sopra il tetto, brillano come gemme mentre l’acqua del fiume e alcune zone umide intorno, riflettono la bianca luminosità dei raggi lunghi e bassi apparendo come splendidi monili lavorati nel platino. Tutto risplende chiaro, mentre la rossa palla all’orizzonte sembra spinta sempre più giù, da una mano inguantata di soffice velluto azzurro intenso.
Ma ecco che quella scena per la donna era solo il presagio sinistro dell’alluvione imminente, ricordo ancora vivo in lei che, ragazza, si ritrovò sul tetto della propria casa per sfuggire alla furia dell’acqua impazzita.
Nella lucida sfera vedeva quadri, sculture, libri rari, annaspare nella melma viscida. Poco più in là gente che disperata, si apprestava a salvare tutta quella parte di vita di Firenze, con le mani e i piedi nel fango a testa bassa, senza riposo.
Poi arrivava la notte, i lontani ricordi del passato sfumavano lentamente, nascosti gradatamente da una luce sempre più intensa, dalle infinite gradazioni di ogni colore, che rimbalzavano sulla faccia convessa della sfera diventando così le innumerevoli stelle di un improbabile cielo.
Questa era l’ora in cui la solitaria signora trovava un po’ di pace con sé stessa: si vedeva in quelle notti placide, seduta sulle alte spallette dell’Arno, abbracciata a un lui stimato e amato, mentre le gambe penzolavano molli sul greto. A destra il Ponte Vecchio con le vetrine sfavillanti, sopra la testa, uno spicchio di luna che si raddoppiava tremante nel fiume che scorreva sotto. Un soffice golfino sulle spalle a mitigare il fresco della sera, contribuiva a ad un profondo senso di rilassatezza.
Così lei per quel giorno chiudeva la finestra con il cuore leggero. Dando uno sguardo di sfuggita al suo fidato specchio, si assicurava che il viso fosse fresco e disteso per un nuovo incontro con lui domani sera …
Erano dunque queste le giornate e le notti di quella donna sola, chiusa nel suo passato. Niente contatti con la vita esterna se non tramite la sua fidata sfera di cristallo, vissuta interamente dentro la sua splendida villa, inaccessibile a tutti.
Il prodigio avvenne una mattina di tarda primavera: pioveva fitto fitto, ai pedi della villa la città pareva un enorme pantano, vapori caldi e densi offuscavano i profili delle colline all’orizzonte, il ticchettio dell’acqua sovrastava ogni altro rumore mentre le auto innalzavano alte fontane al loro passaggio, inzuppando passanti indifesi.
In quel contesto la sfera convessa mise a fuoco l’angolo in basso a destra del cancello rivelando così una palla di pelo arruffata e grondante che talvolta si allungava attaccata alle sbarre, agitandosi tutta ed emettendo strani lamenti.
La donna fu alquanto sorpresa da quella visita inaspettata, mossa dalla sensibilità d’animo che la contraddistingueva, decise di andare lì sotto per accogliere presso di sé quell’anima persa.
Era un cane marrone, pareva un po’ anziano, aveva ferite sul corpo, era magro, affamato.
Lo fece entrare, lo asciugò con gran cura ancor prima di pensare a sé stessa, a sua volta ormai tutta bagnata. Lui la guardava languidamente e guaiva di gioia.
Passò giorni e giorni a curarlo, sfamarlo, dando a quel cane tutto l’affetto di cui lei stessa avrebbe avuto bisogno.
Decisero insieme di non lasciarsi mai più.
Intanto avanzava la stagione bella dei fiori e del tepore del sole, il giardino un tempo ignorato, diventò l’abituale luogo di svago dei due nuovi amici.
L’ austera signora dai capelli di rame, aveva ritrovato una nuova ragione di vita, sentiva l’affetto e la riconoscenza di quel cagnolino non più spaventato e smagrito, lo amava sopra ogni cosa.
Lo specchio rotondo, lassù al primo piano, registrava i loro momenti felici, la città era solo uno sfondo lontano.
Era ormai estate piena quando una sera, la donna sedette davanti alla sua sfera di cristallo e accostò il volto al muso accogliente del cane che le scodinzolava accanto.
Vide riflessa una distinta, anziana signora con una grigia criniera di capelli, due occhietti azzurri circondati da una miriade di raggi piccoli che conferivano maggiore intensità allo sguardo, labbra sottili, collo lungo, con la pelle talvolta un po’ grinzosa, ma elegante. Sul mento una fossetta tirabaci dove si stropicciava affettuoso il testone del suo amico peloso.