Trine: tracce incantate…

L’affascinante maga dal capo bianco abitava proprio sopra il suo appartamento, lei ne sentiva ogni giorno i passi leggeri, percepiva l’odore del cibo che cucinava; captava la voce che argomentava sconosciute questioni utilizzando strane parole…
La magica donna era venuta da un luogo lontano e aveva portato con sé i mille misteri della sua isola mitica, concentrato di storie diverse che la bambina ancora non conosceva.
Talvolta la “fata” le apriva il suo antro, così lei, varcato il cancello, approdava nel verde giardino con il laghetto nel centro; pesci rossi giganti aspettavano quelle poche molliche di pane che di fretta aveva nascosto nella tasca del vestitino. L’altalena, una semplice corda legata a due rami robusti, le ammiccava con il suo dondolio. Quando entrava, stanze vaste ed ariose l’accoglievano, porgendo odori e colori di luoghi lontani. Erano il giallo e l’arancio di limoni ed arance, il profumo pungente degli agrumi più dolci; era il violetto di melanzane sode e rotonde, era l’invito molle del marzapane che troneggiava in mille fogge diverse nella vetrina della sala da pranzo, quasi una mostra di fragili oggetti lavorati in ceramica.
E poi centrini dovunque: candidi, perfettamente stirati, rotondi, quadrati, allungati, ovali; enormi e piccini a sottolineare la bellezza di soprammobili e tavoli dal legno intarsiato, a rendere ancora più dolce il riposo su poltrone e divani di stoffa fiorita.
La bambina guardava ogni cosa ammirata, ogni volta convinta di essere oggetto dell’incantesimo buono che la “maga” aveva ordito soltanto per lei.
La bianca donna incantata era solita fare una magia ricorrente che ogni volta ammaliava un poco di più la bambina…
Se ne stava seduta in giardino, vicino al laghetto, il suo corpo dalle forme molli e rotonde, veniva posato su una piccola sedia di legno così da piantare per bene i piedi per terra, descrivendo con le ginocchia un angolo retto.
L’abito ampio, abbottonato davanti e trattenuto da una cintura annodata, era protetto da un grembiule candido, bene stirato su cui stava adagiato il “magico mezzo”.
Si trattava di una specie di cuscino fatto a forma di tamburo, soffice ma non troppo, ricoperto con un tessuto fiorito di puro cotone. L’imbottitura era probabilmente di crine perché ogni tanto ne spuntava qualche piccola parte dai microscopici fori provocati dall’uso.
Su questo singolare supporto la donna puntava miriadi di spilli e poi, con dei fili simili a spaghi collegati a piccole spole di legno, cominciava a intrecciare con rapidità sorprendente, decine e decine di nodi che poi per miracolo, diventavano trine bellissime decorate con fiori, angeli, frutti.
E intanto che il ricamo avanzava, la maga parlava, parlava di luoghi mai visti, di gente strana e diversa, di modi di vita e abitudini ignote alla bimba stupita che l’ascoltava con gli occhi sgranati e sognava…
Fu così che venne a sapere di una montagna spesso imbronciata, dall’aspetto grigio e desolato, una montagna con bocche aperte dovunque sopra il suo corpo vasto e imponente che spesso rigettavano fuoco e grandi sassi roventi, mettendo in fuga la gente. Seppe
anche che ciononostante era amata e la terra scura che su di lei si formava, invogliava a sfidarla, piantando ai suoi piedi e sui fianchi filari di viti e frutteti.
Conobbe un prodigioso giardino: dall’esotico nome di Kolymbethra ricolmo di incantati agrumeti, mandorleti, oliveti. E poi gli antri fantastici dei Feaci dove un tempo scorreva acqua purissima e chiara. Anticamera di un Olimpo lontano, dove case e luoghi di culto troneggiavano bianchi e magnifici in una valle incantata.
Il racconto ogni tanto spaziava nel mare profondo dove isole amene spuntavano con la loro inattesa bellezza.
Talvolta la “maga” parlava di città variopinte, costruite con una chiara pietra leggera, con i loro mercati vocianti, con le barche dei pescatori attraccate nei porti e stracolme di pesce lucente, guizzante, appena pescato.
Che fortuna – pensava la bimba – per quei pesci rossi stare al sicuro dentro il laghetto di questo giardino!
Intanto che ricamava, la fata tesseva racconti di mitici eroi: Ettore, Achille, Ulisse; di donne capricciose e potenti come Calipso o Circe, di decine di Dei, pieni di difetti e debolezze, litigiosi, burloni, talvolta crudeli, proprio simili in tutto a qualche adulto od amichetta che la bambina conosceva bene.
C’erano poi le giornate in cui il filo bianco conduceva a ricordi di vita vissuta. Lei, figlia di benestanti proprietari di molti terreni, prendeva allora a descrivere l’opulenza di quei campi ormai persi e lontani, del lavoro duro che richiedevano, dei contadini al servizio della propria famiglia che nel dopoguerra avevano cercato di impadronirsi di quelle terre non loro, occupandole e infondendo in lei, ancora piccina, terrore e sgomento.
L’anziana descriveva la sua casa laggiù in quel mondo incantato: pareva la reggia di una regina. Eppure per la bianca donna fatata era stata una buia prigione da dove da sempre aveva voluto scappare, perché aveva un padre padrone e venne offerta in sposa al più ricco ma brutto e vecchio del posto. Per fortuna se n’era scappata
E adesso viveva felice della propria magia.
La bambina ascoltava rapita facendo confronti con la sua vita e il suo piccolo mondo tranquillo.
Il tombolo diventava allora la mente della piccina, dove fili invisibili creavano nuovi, mirabili intrecci.
Con un singolare cavallo di legno prendeva a trottare leggera sui fianchi rugosi della montagna di fuoco; correva alla cima, presso la bocca più grande, dove c’erano ancora i resti fumanti di un misterioso banchetto.
Lassù trovava ormeggiata una invitante barchetta sulla quale saliva contenta e poi scivolava dentro un fiume di lava che inesorabile e lenta, finiva a lambire filari di viti di ottima uva. Allora la bimba scendeva sicura per piluccare quegli acini grossi e succosi.
Altre volte il filo percorreva una trama diversa: attraversava lunghe strade sterrate, polverose, sassose. Passando si poteva sfiorare le pale armate di fichi d’india giganti che offrivano dolcissimi frutti all’assetata viandante. Era lì che appariva ogni volta una Dea la quale, con magico tocco, apriva la scorza del fico che dopo le offriva.
La piccola, dissetata e appagata, poteva così raggiungere il mare, gustare quel blu dai mille riflessi e godersi il calore del sole da una spiaggia formata da una miriade di granelli brillanti o da uno scoglio aspro e nero, simile a un mobile d’ebano.
Da lassù talvolta vedeva spiccare il bianco accecante delle imponenti “case a colonne” abitate dai molteplici Dei, ormai a lei familiari, poteva sentire distintamente le loro diatribe, i pettegolezzi, i litigi.
Talvolta la trama era percorsa da fili contorti e sottili che conducevano a città arrampicate su alte scogliere, con interminabili scalinate al posto di strade, con straordinarie vedute di placidi golfi, a ogni giro di rampa.
Se alzava lo sguardo, poteva quasi toccare le molteplici stoffe di fogge diverse sventolanti leggere sul capo, sembrava la tela di un ragno che aveva voluto mostrare il corredo a un frettoloso passante.
Fili ancora diversi portavano dritti in piazze chiassose, dove voci indistinte testimoniavano indaffarate persone dal carattere fiero. Qui poteva agghindare il cavallo con spennacchi, nappe e sonagli e attaccarlo ad un carrettino istoriato con avventure di pupi e regine per poi osservare dall’alto della singolare carrozza le tante incredibili vite.
La bimba trascorreva così pomeriggi fantastici, a rincorrere trame ed orditi, intrecci sapienti di un mondo incantato e lontano.
Il ricamo della maga sapiente veniva così riaffermato nel tempo.
Quando adulta, la bimba raggiunse quei luoghi, si palesò in visione reale quel mondo incantato tessuto in un tempo lontano.
Soltanto allora si rese conto stupita e felice di custodire già tutto dentro di sé.