LA FINESTRA MALFAMATA
Il grande palazzo si distendeva in orizzontale sul fianco della collina e appariva da lontano come una insolita muraglia posta lì chissà quanti secoli prima, per proteggere la vita segreta che si svolgeva dietro di essa. Soltanto se ti avvicinavi capivi che si trattava di un vasto caseggiato: era una costruzione progettata su volumi diversi, cosicché da una parte si stagliava altissima verso il cielo, che quasi toccava dallo sterminato terrazzo posto all’attico; dall’altra parte si poteva osservare, più in basso, un tetto spiovente a coprire due piani soltanto. Da dietro si ergeva una piccola torre a pianta quadrata. A destra e a sinistra la singolare costruzione adagiava i suoi fianchi su vasti giardini coperti di un verde brillante, magicamente perenne.
Si trattava in realtà di un antico palazzo appartenuto in passato ad una famiglia di nobile stirpe, formata da ricchi mercanti (probabilmente di stoffe pregiate), poi caduti in disgrazia.
Abbandonato in tutta fretta dai suoi proprietari a causa dei creditori, il palazzo rimase per secoli senza padrone, in balia delle forze aggressive di una natura inclemente: il vento e la pioggia avevano alzato l’intonaco, favorendo l’aggressione di possenti tralci di edera che si insinuavano malignamente negli anfratti, arrivando fino al rosso polveroso dei mattoni. L’abbandono aveva permesso a rovi impietosi di appoggiarsi alla delicata facciata piena di stucchi e di fregi.
Le innumerevoli finestre, quasi tutte chiuse da malconce persiane, ostentavano l’incuria con amarezza evidente. Qualcuna mostrava la ferita di un vetro spaccato, qualcun’altra, ormai arresa, spalancava la sua nuda voragine che finiva nel nulla.
Nel susseguirsi degli anni il palazzo era stato rifugio, purtroppo precario, per molti: pipistrelli, calabroni, famiglie di vespe, rettili o insetti come mosconi e formiche; cani randagi, qualche gattino.
Verosimilmente avevano approfittato di quel triste rifugio anche esseri umani.
Chiunque passasse vicino a quel casamento, allungava il suo passo per diversi, plausibili motivi: prima di tutto per il forte degrado che stringeva il cuore, c’era poi il timore di un improvviso crollo o il presentimento di trovarsi
faccia a faccia con una vipera o con un pipistrello dal radar guasto.
Ma il viandante passava quasi correndo, soprattutto se conosceva una certa leggenda tramandata attraverso i racconti orali dei vecchi del luogo…
Si narrava che al momento della fuga avvenuta nel 1485, il mastino napoletano di proprietà della famiglia si fosse nascosto sotto il letto a baldacchino degli sposi. Il cane, atterrito dal trambusto della partenza, aveva cercato scampo nel luogo più nascosto, ma ahimè, anche il più pericoloso e fatale per la povera bestia. Infatti i padroni pur avendolo cercato a lungo, non lo avevano trovato, così a malincuore se ne erano andati senza di lui. Non appena il portone si chiuse alle spalle dei fuggitivi, il cane rimase imprigionato dentro per sempre.
Da quel momento l’animale, abituato ai lauti pranzi che gli preparavano giornalmente i suoi nobili proprietari, dovette adattarsi ad una vita da recluso e a tutt’altra alimentazione.
Dopo aver ululato a lungo disperato e sempre più affamato, aveva deciso di sopravvivere a qualunque costo. Cominciò così col divorare divani e poltrone, poi passò ai tappeti preziosi di seta e cotone, si saziò dei materassi ripieni di soffice lana; sgranocchiò mobili e suppellettili, finché la casa fu vuota.
Furibondo, cominciò allora a scagliarsi contro le tante finestre nel tentativo di uscire a cercare altro cibo, ma la mole del disperato mastino era tale che non gli permetteva di passare. Dai vetri rotti cominciarono ad entrare però animaletti di ogni specie, speranzosi di trovare un rifugio sicuro in quel singolare maniero. Naturalmente diventavano invece subito cibo per il vorace mastino.
La leggenda continuava narrando qualcosa di veramente agghiacciante: un secolo dopo la fuga dei commercianti di stoffe, un viandante aveva sentito urla e lamenti passando davanti al palazzo, alzando gli occhi aveva scorto le ombre di un cane che rincorreva un umano dietro i vetri incrinati della finestra centrale al primo piano del volume più alto del casamento. Aveva forzato la porta ormai sgangherata per portare soccorso a chi credeva fosse in pericolo; entrato, era rimasto di sasso scoprendo per terra un teschio ed un perone umano. Non c’era nessun essere vivo.
Ma lo sbigottito passante non aveva fatto in tempo a formulare un pensiero su quanto vedeva perché subito, un enorme cane furioso lo aveva azzannato quasi staccandogli il collo. Da allora ogni notte di luna piena, se si volgeva lo sguardo a quella finestra che aveva indotto il malcapitato passante ad entrare nel sinistro palazzo, si poteva osservare l’ombra sfumata di un uomo trascinato per mano da un corpo decapitato, entrambi rincorsi da un grosso mastino.
L’antico racconto ammoniva: Chiunque avesse assistito a questa incredibile scena, sarebbe caduto in disgrazia entro tre mesi.
Anno dopo anno la leggenda venne tramandata per secoli, fino ad arrivare ai giorni nostri. Intanto il vasto caseggiato andava sempre più deteriorandosi trascinato nella rovina dalla sua stessa fama. Ancora nel ventunesimo secolo nessuno voleva avere a che fare con quel luogo stregato.
Non c’era nessuno che desiderasse acquistarlo anzi, molti speravano che qualche forza della Natura lo distruggesse del tutto e per sempre.
L’appezzamento di terreno incolto che separava la costruzione dal resto del paese, costituiva il confine fra vita reale e abisso paranormale, fra la rassicurante , nota realtà e l’inquietante ignoto.
Fu grazie a un drone che venne svelato il mistero…
Era una fredda notte d’inverno, il vento soffiava gelido; mentre l’enorme facciona della luna piena appariva e spariva dietro spessi nuvoloni neri, il tecnologico oggetto fu colpito da un fulmine e si frantumò in mille pezzi.
La telecamera, infallibile occhio diversamente umano, venne miracolosamente recuperata intatta.
Aveva filmato una finestra dai vetri spaccati, al di là della quale si scorgeva nel buio una stanza invasa da brandelli di stoffa e batuffoli di lana grezza; ossa più o meno grandi erano sparpagliate dovunque.
A un tratto, quando il chiarore del plenilunio si era fatto più intenso, si vedevano distintamente passare in fretta tre ombre: quella di un uomo (decapitato), che ne trascinava per mano un altro, entrambi visibilmente atterriti, mentre dietro di loro digrignava i denti famelico, un enorme mastino napoletano.