DANTE: BRAVO MARITO? PARLIAMONE.

Le ragioni  di un’ invisibile

                                                                                                              Firenze,23 settembre 1321

Mia carissima Antonia, figlia amatissima.

Sento il bisogno di scriverti adesso dopo tanti anni dalla tua vestizione. Ho bisogno di comunicare con te adesso, dal mio nuovo, inaspettato stato di vedovanza. Ho la necessità di aprirmi a te che ignara di come è stata grama la mia vita, non hai mai capito il motivo del mio immediato consenso al tuo ingresso in monastero ed in cuor tuo lo so, mi hai sempre odiata, ritenendomi una madre senza cuore per non averti sostenuta quando, poco più che bambina, avresti voluto coltivare il tuo giovanile amore per quel Lapo, ultimo di quattro figli di una famiglia ghibellina. Ricordi che reazione ebbe il babbo allora? Appena seppe del tuo innamoramento si infuriò come un toro, ti prese a schiaffi, ti sbraitò in faccia che non avresti mai dovuto osare sfiorare con lo sguardo un ghibellino. E ti comunicò tutto d’un fiato che lui sapeva bene quale sarebbe stato il tuo destino: la monaca rinchiusa in monastero. Io cercavo di calmarlo, gli ricordavo che è una cosa normale innamorarsi, imploravo di darti tempo per superare quell’infatuazione, profetizzavo che poi saresti stata pronta al matrimonio combinato da noi, così come si conviene in ogni rispettabile famiglia.

Ma quello che tu non sai è che subito dopo mi trascinò per un braccio lontana dai tuoi occhi e cominciò a inveire contro di me, apostrofandomi con le offese più vili, insinuando la mia cattiva fede nell’osteggiare le sue scelte. Mi fece giurare sui miei avi che avrei avallato ogni sua scelta nei tuoi confronti da quel momento in poi, pena il ripudio.

 Piangevo calde lacrime, ma ero troppo debole, così chinai il capo.

Ecco perché sei monaca e non moglie di Lapo.

Comunque sappi che anch’io sono vissuta in una continua costrizione, obbligata a stare con un uomo che mi ha sempre ignorata.

Dante, tuo padre, non mi ha scelta, gli sono stata data che ero ancora bambina, avevo appena dodici anni e se non avessi spiato da dietro al tendone che copriva la finestra del salone, avrei saputo la mia sorte soltanto il giorno delle nozze. Ricordo ancora: intorno al grande tavolo in massello di noce c’era mio padre Manetto, due suoi fratelli a testimoni e il notaio Aldovini che scriveva il contratto con cui venivo barattata per 200 fiorini. Sarei diventata la sposa di un certo Durante detto Dante, figlio di Alighiero. Gente dalle origini nobili (come seppi dopo) ma ormai in declino, che andava in cerca di personaggi ricchi, di spicco come i miei, che facevano parte della classe emergente idonea quindi a dare nuovo ossigeno e lustro alla loro famiglia decadente.

Quanto piansi quel giorno! Per la prima volta nella vita ebbi la percezione netta di essere merce di scambio e non la figlia adorata che mi recitavano in faccia con quei sorrisi falsi.

Quando lo vidi per la prima volta, mi colpirono quei suoi grandi occhi scuri sinonimo di intelligenza ed onestà, in fondo non mi dispiaceva quel ragazzotto bassino dal naso adunco! – Forse col tempo lo amerò e mi amerà anche lui -pensavo.

Ci sposammo un giorno luminoso di primavera e cominciò la nostra vita insieme. Lui aveva molti amici tutti un po’ pazzerelli: pittori, scrittori, filosofi, giovani scalpitanti, che sognavano un mondo pieno d’amore e di giustizia, che con la nuova moda, lo stil novo, corteggiavano le tante donne belle e gentili di Firenze, oppure si perdevano a contemplare la natura ed a cantarne le peculiarità più misteriose. Dante in più era un grande studioso e amava la politica.

Fu così che grazie al prestigio del mio nome, poté iscriversi all’Arte dei Medici e Speziali, trampolino di lancio per la politica attiva. Io non avrei voluto, sapevo i rischi, ma non mi interpellò nemmeno!

Comunque la scelta della politica si rivelò azzeccata: in poco tempo, col suo saper parlare e il suo senso di equilibrio e giustizia, arrivò a fare il priore.  Era nel gruppo dei guelfi bianchi, questo lo ricordi anche tu naturalmente. Nel frattempo leggeva tanto, scriveva, scriveva chiuso nel suo piccolo studio e guai se io mi avvicinavo, mi cacciava in malo modo ricordandomi che dovevo occuparmi soltanto di curare la casa e voi, miei cari figli …

Io pensavo che non mi volesse far sapere quanto fosse fondata la sua amicizia coi Cerchi, grandi nemici di noi Donati con i quali aveva strettissimi rapporti epistolari (la qual cosa mi aveva confidato in gran segreto uno dei miei fratelli).

Invece…

Un giorno, mentre Dante era occupato alla Castagna, presi il coraggio a quattro mani e mi introdussi furtivamente nel suo studio: volevo capire cosa mi nascondeva. Quante scartoffie, che disordine, rotoli di carta sparsi ovunque, aperti, chiusi, sul tavolo, in terra, poggiati in bilico ai lati del camino. E poi gli inchiostri gocciolanti sul tappeto prezioso che avevo portato in dote: che orrore! Arraffai a casaccio e mi ritrovai fra le mani un ammasso di carte scritte fitto fitto in quella lingua che tuo padre ha sempre amato tanto, meno dotta e popolare, era una cosa in prosa e rima.

Curiosa mi misi a leggere.

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice…

: “Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo”.

  • Ma di chi parla mio marito!  Chi è questa Beatrice, una cotta giovanile ormai superata?

Scorrendo ancora lo scritto dovetti ricredermi: questa donna misteriosa l’aveva sempre avuta nel cuore e senza tanti forse ha pensato a lei fino alla morte.

Scoprii addirittura che parallelamente a questa infatuazione, aveva avuto due amanti, che lui chiamava “donne schermo”, povere illuse che lo credevano sincero, mentre lui le usava solamente per nascondere al mondo il suo vero amore!

Più avanti confessava di essere stato scoperto da questa Beatrice che gli tolse addirittura il saluto. 

  • Ben gli sta – Pensai con rabbia e disgusto.

Ma le sorprese non erano finite: Lui le ha sempre voluto talmente bene da decidere di farne la sua musa immortale e di infilarla in ogni scritto. Così confessava in questo suo lavoro.

  • E su di me neanche una parola, mai! Che delusione figlia mia!

Io remissiva, obbediente, pronta a seguirlo sempre, io strumento della sua fortuna, mezzo del suo prestigio e potere, per lui valevo men che niente.

Da quel momento mi chiusi a riccio nella mia desolazione assistendo alla dissipazione dei beni che Dante aveva ereditato dal suo babbo per poter far politica e darsi alla poesia.

Ti confesso che quando in città ci fu l’arrivo di Carlo di Valois, con tutto il parapiglia che ne conseguì, fui contenta: quell’arrivista del mio compagno avrebbe finalmente pagato, la sua arroganza, la spietatezza che mi aveva usato sarebbero cadute in mano ai nemici e io avrei avuto giustizia. Pensavo questo ma non immaginavo che sarebbero arrivati a quel processo iniquo, con delle accuse folli di crimini mai dimostrati. La condanna all’esilio fu per davvero ingiusta, questo lo riconosco e voglio confessarti un’altra cosa: quando Dante rifiutò le loro condizioni e non volle tornare, mi sentii fiera di lui.

Ma non consideravo tutte le conseguenze di quell’infausto evento: rimasi sola con voi figli, con i beni di famiglia confiscati e dileggiata da tutti quando uscivo per strada. Intanto mi giungevano notizie del suo peregrinare da una corte all’altra, a servire questo o quel signore mentre da lui, uomo di lettere, erudito, non ricevetti mai neanche un saluto.

Della tua partenza per Ravenna dove entrasti in monastero, io non sapevo nulla, non ricordavo la promessa estortami a suo tempo. Quel servo prezzolato evitò di recapitarmi il biglietto consegnandolo direttamente a te. Era compiuta la volontà del mio signor padrone.

 Ma questo non bastò a umiliarmi: ti fece assumere come nuovo nome da suora “Beatrice” e tu, ignara, accettasti.

Quando lo seppi mi sentii mancare!

Avrei voluto correre da te, strapparti a quella sorte che non condividevi, ma sono sempre stata una debole, una che incassa, così ti detti modo di ritenermi una madre incapace e seppi solo piangere…

Ora capisci Antonia il mio tormento?

Solo da vedova mi sento sollevata perché sicuramente non mi farà più male quell’uomo tanto dotto, grande oratore e scrittore divino, ma inadeguato a un semplice rapporto umano.

Oggi che è morto ripenso a quanto mi abbia fatto tribolare, all’arroganza, a quell’indifferenza che mi dimostrava e dietro le sue spalle mi sembra di vedere sempre l’ombra di quella donna come in un teatrino che con dei fili lo muove.

Con infinito amore,

Mamma

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