
Apprezzo il suo abbraccio rassicurante soprattutto quando in auto, risalgo la grande strada panoramica dopo estenuanti ore trascorse nel caos del via vai cittadino.
Forse perché il suo doppio profilo rotondo e uguale riporta la mente al seno materno, forse perché è lì che ho respirato la prima volta, forse perché ne conosco i mille segreti e le storie nascoste in ogni suo anfratto, forse perché in molti suoi scorci ritrovo una piccola traccia di me prima che fossi io, quando arrivai, adesso e dopo.
Per questi motivi e per mille altri ancora la amo.
La prima forte emozione è quando, arrivata alla grande curva a gomito che funge da crocevia fra Fiesole e Maiano, so che di qua o di là che vada, posso trovare tracce di me.

A destra le cave
Custodiscono la loro antica potenza sotto una folta coltre verde, splendida copertura per quei giganti immobili, rotondeggianti, un tempo brulli rilievi simili a singolari testoni calvi di antichi colossi, su cui il caldo sole estivo insisteva puntiglioso e dove l’inverno spaccava la tua pelle col suo gelido vento.
Qui un’antica parte di me ha visto un immenso cantiere a cielo aperto pulsare del lavoro frenetico di esperti scalpellini, intenti a forgiare i decori più belli per la grande Firenze.
Una piccola parte di me ha vissuto in una di quelle antiche case costruite una addossata all’altra, con i muri di pietra dentro e fuori, case basse, dalle pareti possenti e con enormi camini sopra i tetti grigi. Case raggruppate ai piedi di quei giganti che pur minacciosi per chi vi passi davanti in modo frettoloso, hanno rappresentato sicurezza e protezione per chi viveva del loro dono.
Quella pietra serena chiara, quasi cerulea, simile al colore del cielo e dura più dell’acciaio è l’essenza di questa città ed è anche l’essenza primordiale della mia vita.
Se mi inerpico per una di quelle stradine contorte, erte, sassose, che collegano come in un labirinto le innumerevoli cave, percepisco le voci sovrapposte nel tempo di chi ha condiviso la propria fragile vita con quella possente della pietra serena. Così il confabulare grave e lento, scandito dal battito ritmico degli antichi scalpelli, emerge e si immerge tra le preghiere e i lamenti dei tanti che insieme a una me ancora a venire, hanno cercato scampo alle bombe dentro il grembo di queste montagne. Poi a tratti si insinua qualche frase gioiosa, qualche risata, un grido di stupore o un profondo sospiro che testimoniano l’appagamento del turista curioso.
Ed eccomi finalmente materializzata in uno scatto recente che testimonia il mio passaggio da runner su questo suolo che mi conosce da sempre.
Con questa sicurezza che mi deriva dal sentirmi “a casa”, ritorno indietro per la via principale, riconoscendo i luoghi del mio antico passaggio: la fattoria mi investe del profumo di pane caldo, appena uscito dal forno, vedo le stanze della villa che porta il nome stesso del luogo, tirate a lucido e sento la fatica sbirciando attraverso le finestre di quella casetta tutta grigia, poco distante. Dentro abita una donna giovane, incinta, mentre la guardo, culla un bambino. Sento suonare una chitarra in sottofondo e tutto è familiare.
Poi, sotto lo sguardo vigile degli avi di pietra, ritorno a quella grande curva del regresso e risalgo verso un me più recente ma ancora a venire.

Vista da qui la città di Firenze se ne sta docilmente acquattata ai piedi di questa collina evidenziando i suoi tesori più belli: le chiese, i palazzi, il verde dei parchi, l’azzurro dell’Arno. Dall’alto delle finestre di quella grande villa risorta dalle povere casette dei Ferrucci, posso godere di questo panorama mozzafiato spaziando da est a ovest e salutando di fronte piazzale Michelangelo e San Miniato al Monte.
In primo piano grandi giardini e ville protette da alti cancelli, nuova veste per antichi campi costellati di viti e di olivi patrimonio passato di nobili e di ricchi stranieri dove la me bambina scorrazzava felice nei grandi spazi aperti.
Da quassù osservo il tramwey silenzioso che affronta la strada in salita, subito sorpassato da un curioso mezzo che spicca sulla strada col suo verde sgargiante e si trascina su sorreggendosi a doppie pulegge. Ma basta un attimo e ritrovo me stessa sopra un autobus sovraffollato che sponsorizza, sulla lucente carrozzeria vestiti, profumi e belletti e che grazie a un motore potente e rumoreggiante, mi conduce i in un battibaleno alla piazza.
Ecco il cuore, la parte più antica che pur mantenendo intatti i suoi monumenti più belli ha sopportato nel tempo mille cambiamenti.
La sua ampiezza che appare improvvisa allo sbocco della strada in salita, cattura la mia meraviglia.
Meraviglia che cresce nel riscoprire intatto il lastricato di pietra serena che sale fino al punto più alto del colle e continua con un’ardita scalinata fino al convento dei frati. Mi sporgo, ma rimango seminascosta da una colonna del porticato, da lì ammiro una giovane sposa in abito bianco che ha qualcosa di me nel suo viso…
Le anguste cellette dei frati rimangono eterne nella loro modestia e si confondono assieme alla semplice chiesa, nel verdeggiare della natura.
Nel bosco di querce e cipressi proprio là sotto, percepisco l’odore di terra e di muschio che preesisteva a me e ancora mi accoglie.
Ritorno correndo giù in piazza da dove, alzando lo sguardo incontro la chiesa più antica: Santa Maria Primerana col suo pronao dal tetto spiovente, con le colonne perfette per giocarci ai quattro cantoni. La chiesetta ha un’unica stanza dove ti accoglie Giovanni da Sangallo che ti mostra pacato, i delicati bassorilievi lucidi di scuola robbiana. Accanto la canonica, spesso sede di mostre, già luogo di giochi e di svago dopo i compiti a casa.
E ancora continuo il cammino salendo e ritrovo ai miei piedi Firenze. La vista è anche da questo versante stupenda, ma ancora più strabiliante è l’approdo al termine della salita.
Lì sei accolto da un soffice prato, inondato di luce. La scuola media é di fronte, pensata da Michelucci, l’architetto degli spazi aperti. L’edificio respira quell’aria sana e frizzante che soffia da Montececeri a pieni polmoni per accogliere al meglio i suoi allievi.
Attraverso e riprendo la via che di nuovo e al contrario mi porta alle cave. Se ascolto, sento i ragazzi cianciare, la voce affaticata dei tanti docenti e la mia.
Scendendo per la strada contorta, inondata di polvere, costellata di sassi e radici, rivivo al presente le traversie e gli affanni delle antiche parti di me e apprezzo appieno il presente.
Ritorno alla curva di snodo e adesso riscendo.
La vita chiassosa e frenetica della città mi risucchia facendomi doni allettanti, abbagliandomi con mille promesse.
Talvolta soccombo impotente o incosciente ma sempre ritorno su questa collina dove vivo il presente.
Laggiù ci abita adesso una parte del me futuro.
Invece l’altra io a venire la vedo solamente qua, sulla collina.