DIETRO UNA MASCHERA

INSEGUENDO UN SOGNO

Aveva vissuto in quel piccolo paese di provincia del Centro Italia fin dalla nascita; lì aveva frequentato la scuola dell’obbligo, lì aveva incontrato le prime amicizie e i primi amori… I suoi genitori erano i proprietari idi una graziosa villetta monofamiliare un po’ distaccata dalle altre abitazioni condominiali, circondata da un grande giardino che l’uomo aveva amato e condiviso prima con gli amichetti d’infanzia, poi con quelli incontrati al liceo del  vicino capoluogo, infine con i primi amori. 

Era stato stimato da tutti in paese e quando, dopo l’incarico a tempo indeterminato presso la  scuola secondaria del posto, aveva trovato una compagna e  aveva deciso di continuare la vita in coppia proprio in quella casa dov’era nato, tutti furono contenti e si complimentarono con quel loro concittadino serio e rispettabile , perfettamente inscrivibile nel comune senso del “giusto vivere”.

Passarono molti anni, mentre la famiglia dell’uomo si allargava con ben tre figli, il paese si ampliava arricchendosi di nuove strutture. Lui era ormai un maturo professore, amato e stimato da decine di studenti.

Tutto filava per il meglio, tutto rientrava nei canoni, tutto era perfetto.

Il professore, riconosciuto unanimamente come un’eccellenza per la sua vasta cultura e per la fluida parlantina ricca di vocaboli ricercati e infiorettata da accezioni sempre azzeccate, veniva chiamato a intervenire dovunque: all’inaugurazione di una mostra di quadri, al varo dell’Auditorium appena costruito, a dare il benvenuto a importanti personalità in visita al suo Comune…

Eppure l’uomo non era appagato, sentiva una certa inadeguatezza del suo sé ed uno strano impulso a rifuggire ogni invito, senza peraltro rendersi conto del perché di quel suo “strano” atteggiamento.

Sapeva soltanto che amava sognare ad occhi aperti una vita diversa, libera da convenzioni e ipocrisie e poteva farlo soltanto quando si trovava da solo. L’occasione era data da un pacco di compiti da correggere, una lezione da preparare per il giorno seguente, l’attesa del figlio che usciva da scuola nell’abitacolo della propria auto. Anche la doccia era un valido alibi per fantasticare, prima che qualcuno della famiglia bussasse inopportunamente alla porta e lo riconducesse al suo ruolo, quello noto a tutti di professore con moglie e prole, colto, stimato, ligio al dovere.

L’opportunità si presentò inaspettata un giorno di primavera inoltrata, al termine dell’anno scolastico, quando l’uomo si era iscritto a un corso di aggiornamento estivo presso il Convento dei Frati Cappuccini della Verna, in provincia di Arezzo.

Doveva essere la sua settimana di libertà, lontano da impegni mondani, lontano dagli obblighi della sua funzione docente, lontano dalla propria famiglia in procinto di partire per il mare.

L’uomo guidava dunque verso la Verna, libero finalmente di fantasticare su un’esistenza alternativa, ascoltando placidamente musica leggera alla radio.

Erano le 13 in punto quando il programma di canzonette era terminato lasciando spazio al Notiziario. Come di consuetudine il professore alzò il volume per ascoltare bene le notizie del giorno – informazioni sulle debolezze e i mali del mondo inframezzate talvolta da qualche buona nuova – quasi sempre dati riguardanti una sfera lontana, che non lo coinvolgevano più di tanto.

Quel giorno però una notizia travolgente lo fece sobbalzare sul sedile, lo indusse a girare bruscamente il volante facendo sbandare l’auto pericolosamente.

C’era stato un grave incidente proprio sull’autostrada che stava percorrendo; era avvenuto circa due ore dopo il suo passaggio da quel punto preciso dove adesso stavano rimuovendo i rottami di un’auto esattamente come la sua: una Lancia Ipsilon 1200 rossa. Il conducente era stato estratto dall’abitacolo in condizioni disperate ed era deceduto quasi subito, Era quasi irriconoscibile…

Un caro amico di famiglia si trovava a passare di lì ed aveva assistito a tutta la scena dell’incidente, convinto che il malcapitato fosse proprio il professore, ne aveva avvertito la moglie che era subito accorsa. La donna, stravolta, aveva frettolosamente riconosciuto in quell’uomo ferito in modo straziante, il proprio marito, ovvero esattamente lui, il professore.

Lui, il grande professor Giovanni Verdi era per tutti tragicamente deceduto.

Ci volle un attimo, in un momento la Lancia Ipsilon rossa lasciò l’autostrada e fu abbandonata priva di targa nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo. Poco prima un falò improvvisato aveva cancellato per sempre l’identità del rispettato professore.

Da quel momento l’uomo cominciò la sua vita da clandestino; viaggiò chiuso in toilettes luride e anguste, dormiva e mangiava nei centri d’accoglienza e intanto si allontanava sempre più dal suo mondo, dalle proprie abitudini e dai suoi affetti. Riuscì a passare la frontiera e ad entrare in Francia.

Si sentiva strano, spesso toccava sospettosamente qualche parte del proprio corpo per accertarsi che fosse proprio lui, si carezzava, si pizzicava, cercava una sua propria reazione che puntualmente arrivava: era lui, il professore Giovanni Verdi, eppure adesso non era finalmente più lui, tutti ora riconoscevano quel suo volto con la barba lunga, quegli abiti ormai logori, quegli occhi trasognati e dolci non più celati dietro asettici occhiali.

Fu grazie ad un incontro nell’albergo dei poveri di un piccolo paesino sulle Alpi francesi che il professore decise di essere definitivamente Mario Rossi, nato sulle sponde della Mosella da madre ignota, abbandonato subito dopo il parto e accolto da un orfanotrofio dal quale era stato mandato via al compimento dei suoi diciotto anni. Senza fissa dimora e senza documenti, si godeva ora ogni momento di vita adeguandosi alle occasioni contingenti. Si inventò che amava dipingere e che sopravviveva grazie ai ritratti che eseguiva per turisti di passaggio.

Per quanti anni il professor Verdi avrebbe voluto fermarsi ad un angolo della strada e fermare in un tocco di pennello le espressioni di passanti sconosciuti, quante volte avrebbe interrotto la propria lezione e si sarebbe messo a ritrarre il paesaggio là, fuori la scuola… Per quanti anni avrebbe voluto gridare la sua natura di artista, la sua semplicità, il suo essere contro ogni convenzione…

Mario Rossi era la sua riscossa.

Cominciò la sua vita da nomade pittore di strada al fianco del nuovo amico, senzatetto come lui e insieme percorsero chilometri e chilometri nel nord est della Francia, soffermandosi nei luoghi più frequentati da turisti in cerca di ricordi da riportare a casa e ben disposti a cedere qualche spicciolo in cambio di un ritratto con sfondo sul monumento o sul panorama più famoso de luogo. Le sue opere erano molto apprezzate, riceveva mille complimenti che lui ricambiava con un sorriso e un grazie. Quando non dipingeva se ne vagava libero per piazze e vicoli, sedeva solitario su un muretto ad ammirare il tramonto del sole, godeva del vento, della pioggia, della nebbia che lo avvolgeva; se era triste piangeva, se era felice rideva e poteva condividere tutte le emozioni con gli amici di strada: ogni preconcetto, ogni convenzione era bandita.

Mario era felice, la genuinità di quello stile di vita lo inebriava e lo rendeva vulnerabile alle emozioni più dolci, lo rendeva facile preda dei sentimenti più umani…

Si innamorò perdutamente di una nuova lei, libera e senza casa come lui, passarono anni felicemente uniti.

Ma un giorno tutto cambiò: erano entrambi seduti sopra il marciapiede, vicino ad un negozio di dolciumi, in pieno centro ed aspettavano clienti da immortalare sulla tela.  La Polizia li catturò come accattoni.

Documenti! – Intimò l’agente.

-Mi chiamo Mario Rossi, ma non posso dimostrarvi niente, non ho mai posseduto i documenti io sono sempre stato inesistente! Vivo nei miei ritratti, attraverso i mille volti della gente.

Lei intanto mostrava la propria tesserina: si chiamava Giulie, veniva da Parigi, era fuggita dalle falsità del mondo della moda e come lui cercava la sua sé. Fu rimandata a casa col foglio di via.

_ Inquanto a lei, signore, se ne starà nel centro d’accoglienza finché non scopriremo chi veramente è.

Per ora non esiste.

Mario fu preso dallo sconforto: era stimato, rispettato, tutti gli volevano bene, la sua compagna lo amava, lui d’altra parte si era visto e rivisto riflesso in tutte le vetrine, c’era, era davvero vivo…Eppure non esisteva.

No, non poteva accettare la propria ingiusta inesistenza, non accettò che gli negassero la sua vita felice.

Decise in tutta fretta di ritornare ad essere il vecchio, grigio professore che era stato un tempo, inappagato certo, ma vivo. Pianse per lunghi giorni perché quel Mario che era lui non se ne voleva andare. Poi, in una notte senza luna, evase dal centro d’accoglienza e come era arrivato, se ne scappò nascosto nella toilette di un treno.

Arrivò al suo paese, in Toscana, qualche giorno dopo; era invecchiato, sporco, con la barba lunga, Vide una luce in casa sua, bussò, gli aprì un signore incravattato, abito scuro: – Chi cerca? Cosa vuole qui?!

-Ma questa è la mia casa, io sono Giovanni Verdi, il professor Giovanni Verdi. Mi faccia largo, devo entrare!

-Impostore, come può infangare il nome di un povero uomo deceduto da pochi anni, se ne vada prima che la sentano i figli!

– Ma dov’è mia moglie?

-Allora insiste, bene chiamo la Polizia.

La luce blu del lampeggiante illuminò ben presto il volto affranto del redivivo professor Giovanni Verdi.

-Documenti prego! -Intimò l’agente

Giovanni si voltò di scatto, e con un balzo felino scomparve dietro la siepe del suo bel giardino. Correndo si imbatté nella sua vecchia scuola, c’era una targa:

A memoria del professor Giovanni Verdi, stimato e amato cittadino, scomparso prematuramente…

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