Sono solita aggirarmi nei mercatini dell’usato fra bancarelle stracolme degli oggetti più disparati e strani: cose arrivate da luoghi lontani, tesori approdati a noi dopo lo strappo dal cuore di sconosciuti esseri umani, oppure dopo il rifiuto di qualche cinico possessore di quelle suppellettili preziose.
Luccichio di medagliette della grande guerra, copertine in cartapecora cucite su pagine consunte che tramandano in latino storie e preghiere; cumuli immensi di merletti e trinati appena usciti dai corredi di sconosciute, vecchie signore. E ancora i fumetti di quando i nostri padri erano dei bambini, le cartoline dei soldati al fronte, un orologio a pendolo, un braciere, oppure un sofà mezzo sdrucito… Tutto sta come in scena, tutto da bravo attore è pronto a raccontarti fantastiche avventure.
Quando ti immergi in questo mondo variegato e strano, godi di tutta quella confusione, aspiri con piacere l’odore della muffa mischiato a quello del metallo appena lucidato, della cera per mobili e in sottofondo, percepisci contemporaneamente, l’odore buono del sapone da bucato, garanzia di igiene, per quelle stoffe bianche immacolate.
E poi le voci forti dei rivenditori che ti invitano a comprare con insistenza e l’acquirente esperto che sentenzia “Ma questa è una patacca!”
C’è chi tocca, chi annusa, chi, appagato, si gode la gioia di aver fatto un grande affare.
Si viene trascinati dalla folla da una bancarella all’altra, seguendo un ritmo allegro e concitato, quasi si fosse ballerini esperti di un rituale che celebra il passato.
Stavo dunque godendomi l’acquisto di un vestitino vintage di un morbido lino stampato a fiorellini bianchi sopra un bel fondo azzurro. “Anni ‘50” mi aveva detto il venditore “E’ appartenuto ad una nobildonna di origini lontane”.
Lo avevo congedato sorridendo, certa in cuor mio del buon affare fatto. Il modellino era particolarmente accattivante: corpino stretto, maniche a palloncino, gonna svasata, piccole tasche riportate ai fianchi.
Frugai con noncuranza in uno di quegli insoliti forzieri e vi trovai una vecchia foto in bianco e nero; era un po’ stropicciata ma chiaramente si notava una giovane donna in camicetta chiara, seduta davanti a un grande tavolo da lavoro.
Mi fissava con due occhi neri, pungenti e fieri, quasi come sfidassero l’ospite inaspettata. Cominciai ad indagare con puntigliosa cura quell’immagine così vivace, come un provetto detective, scrutai ogni dettaglio, ma lo sforzo dell’indagine fu tale, che piano piano levitai lontano, al suono ritmato e dolce di una fisarmonica chissà dove nascosta.
Come risvegliata dopo un lungo sonno, mi ritrovai catapultata nella ventosa steppa e quella grandiosità distesa e uguale mi fece barcollare.
Poi sobbalzai atterrita, vedendomi attorniata da un branco di cavalli scalpitanti i cui zoccoli duri producevano un ritmico suono di tamburi.
A un tratto mi sentii chiamare da una voce di donna dall’accento strano e mi voltai di scatto. Avvolti da una fitta nebbia chiara, vidi due occhietti neri che mi fissavano alteri. Il resto del corpo era confuso, ma potevo scorgere i suoi capelli mori e un vestitino azzurro, con dei fiori bianchi stampati…
Lo strano essere mi invitò a seguirla, mentre un pallido sole stava spuntando dall’orizzonte lontano.
Io mi sentivo smarrita, avevo la consapevolezza di aver oltrepassato ogni limite del reale e temevo che non ci fosse più possibilità di ritornare. Percepivo una insolita leggerezza del mio corpo, tanto che non poggiavo i piedi a terra, ma nuotavo leggera sospesa sopra distese erbose. Docile seguii la voce che proveniva dagli occhietti neri…
Procedemmo per molte ore su un territorio piatto, costituito da pascoli e campi di piante commestibili e no, mentre la nebbia si diradava lasciando penetrare la luce e il calore di un sole sempre più forte e caldo. Talvolta scorgevo uomini con larghe casacche bianche che curvi e gocciolanti di sudore, facevano fascine di un giallo fieno tagliato con enormi falci sinistramente luccicanti.
Accanto a questi “giganti” perlopiù calvi e privi di calzature, c’erano donne massicce, vestite anch’’esse di tuniche bianche, ma più lunghe, strette in vita e ricadenti su ampie gonne. La parte del corpino era ricamata a colori vivaci a formare disegni geometrici. Le donne, che a differenza dei maschi avevano la testa coperta da copricapi in stoffa dalle tinte vivaci e che portavano i capelli raccolti in lunghissime trecce, caricavano affannosamente le fascine sui carri attaccati a coppie di cavalli che nitrivano impazienti.
La mia singolare guida veleggiava sicura e ogni tanto si voltava per rassicurarmi, sentendo la mia reticenza a proseguire e percependo la mia incredulità per quello che stavo osservando.
Mi confidò che il periodo che stavamo vivendo era quello brevissimo dell’estate, la più fugace stagione dell’anno, fra breve la fiorita estate avrebbe lasciato il suo posto al lungo e freddissimo inverno, che si sarebbe annunciato con il solito gelido burian, il vento glaciale che avvolge tutto in un farinoso velo bianco. Era per questo che i contadini lavoravano in maniera così concitata.
Io alle sue parole mi rassicuravo.
Poco più avanti, immersi in una splendida, verdeggiante campagna, vidi spiccare i colori forti degli abiti di donne indaffarate intorno a pesanti pezze di tela. Erano chine su canali colmi d’acqua, altre intente a distendere quelle stoffe sull’erba verde sotto il caldo sole. Si leggeva su quei corpi sfatti e su quei volti tristi, la fatica di una vita.
Presa da un forte senso di commiserazione, guardai con costernazione la mia guida.
Lei mi fissò con superiorità:” Fanno un lavoro nobile, lo sanno bene. Senza di loro tutta la bellezza del mondo, i colori la luce, la vita stessa nessuno li potrebbe raccontare!”
L’ascoltai con interesse, pur non capendo a fondo il senso del discorso…
Arrivammo così a un piccolo, bizzarro villaggio abbracciato da spesse mura di pietra. Entrammo attraverso un’ampia porta in legno di betulla chiara e mi trovai immersa in un ambiente che io pensai appartenere a qualche buona fata. Le case erano piccole, con le facciate dipinte a colori sgargianti, con i tetti appuntiti lucidi di ardesia scura; si vedevano fiori ad ogni finestra e fra una costruzione e l’altra c’era lo spazio di un passo, perché le strade erano strette, tortuose, dal selciato in pietra grigia. Dalle porte socchiuse si potevano scorgere tavoli apparecchiati con tazze da tè a circondare fumanti, lucidi samovar.
Dovunque sentivi battere ritmicamente, levigare, scalfire… Ero stordita, incredula, avevo timore, ma la mia guida mi spiegò che quel rumore altro non era che il lavoro più antico del luogo: sculture di legno, per propiziarsi il magico mondo degli esseri sovrumani che decidono i nostri destini.
Giungemmo a un palazzo dalle cupole d’oro, costellato di piccole finestre fiorite e immerso in un verde giardino in cui fiorivano splendidi gigli rosati. Gli occhietti neri si socchiusero allungandosi in un sorriso di soddisfazione: “E’ questa la mia casa, finalmente!”
Di nuovo la fisarmonica si mise a suonare mentre il sole con i suoi raggi faceva risplendere ogni cosa mescolando gli oggetti in un unico prodigioso bagliore che mi dava l’estasi.
Mi ritrovai così, senza capire, in una sala immensa, piena di arazzi e tappeti dove seduta, intenta a ricamare, c’era una donna all’apparenza giovane, con un abbigliamento singolare, sobrio ma ricco nello stesso tempo. Aveva un abito di lino dallo scollo ampio e profondo, con un corpino strettissimo, la gonna lunga ed arricciata, pudiche maniche lunghe. Il vestito, bianco e finemente ricamato con piccoli fiori dai colori vibranti, era impreziosito da un copricapo a corona per decorare la testa dalle lunghe trecce nere.
Tanta bellezza mi lasciò senza parole.
La donna lanciò uno sguardo di benevolenza alla mia eterea guida e lei le fluttuò vicino fino ad abbracciarla in una morbida spirale.
E fu qui che avvenne il prodigio: le due entità si fusero e in un attimo su quella stessa sedia, stava seduta una bella, giovane donna dai capelli corti e mori racchiusi da un copricapo di stoffa fiorita, che abbigliata con una camicia bianca di lino e una semplice gonna lunga, stringeva in grembo un grande mazzo di gigli rosati.
Aveva quello stesso sguardo fiero dell’entità che mi aveva accompagnato e che non sapevo ancora se avesse un corpo o come fosse il resto intorno a quegli occhietti neri. Adesso la vedevo nella sua interezza: alta, elegante, splendidamente altera, rassicurante e travolgente, mi tese la sua mano affusolata attirandomi a sé con mio grande piacere.
Uscimmo tenendoci per mano.
Lei si voltò ancora per un attimo e con lo sguardo sembrò rapire tutta quella natura luminosa e colorata.
Poi un vento furibondo offuscò tutto ed in un vortice ci spinse lontano.
Volammo entrambe dentro una tormenta pungente di neve, lei sicura di sé, tranquilla e sorridente, io terrorizzata le stringevo forte la mano.
Di lì a poco sentimmo in sottofondo il suono dolce della fisarmonica che da leggero e lontano si faceva sempre più chiaro.
Cessò di colpo il vento ed io mi ritrovai come d’incanto, seduta tranquillamente sul mio divano.
Avevo in mano quella foto in bianco e nero con la signora in camicetta chiara e sullo sfondo ora vedevo quei paesaggi fantastici e lontani che lei aveva incorniciato portandoseli dietro.