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Questo racconto
si ispira alla poesia “Limoni”
di Eugenio Montale.
Vivere in quella piccola casa di città con le finestre sempre socchiuse per non entrare nell’altrui intimità e per proteggere la propria vita privata.
Osservare un piccolo spicchio di cielo, sporgendosi dal balcone e intuire così le stagioni.
Insistere a testa in su, ore e ore la notte, per cogliere il faccione rotondo della luna piena che gioca a nascondersi dietro i molteplici tetti.
Passare una vita così, sospesa dentro una bolla che attenua e confonde i rumori del mondo.
Contentarsi di un’esistenza precaria che fa dei ricordi la propria ragione di vita, esistenza che sembra ignorare un possibile, diverso futuro.
Era così che trascorreva i suoi anni l’anziana signora, immersa nei propri ricordi più cari, ansiosa di riabbracciare ogni tanto i propri figli già grandi; eternamente in lotta con un marito un tempo infedele, adesso prostrato ai suoi piedi.
–Eh no caro mio- usava esordire la donna ogni volta che lui la implorava di rimettersi insieme.
–Troppo facile, adesso che lei ti ha buttato, cercare pietà da chi hai tanto ingannato!
E poi c’era lui, quell’ombra sfumata che spesso appariva ammaliandola con il suo seducente profumo e una pelle bruna di sole.
Quella visione sublime l’aveva salvata dal tracollo sicuro ormai molti anni prima ed ancora insisteva, accompagnandola al di là di quelle facciate, al di sopra dei tetti, fin quasi a toccare la luna.
La donna aveva cercato di dare un nuovo senso alla vita fuggendo in Sicilia dopo che il proprio marito l’aveva sostituita con l’altra.
Era partita così, lasciando i figli ancora piccini ad un’amica fidata; sulle spalle uno zaino con dentro pochi vestiti gettati lì alla rinfusa. Voleva starsene sola per ritrovare sé stessa, voleva immergersi nella calda natura fatta di colori e profumi di quell’isola mitica, sperando di trovarvi una motivazione accettabile agli affanni della propria esistenza.
Aveva vagato a lungo inondata dal sole, camminando su scogli aspri e neri, o su soffici tappeti sabbiosi. Era salita fino a dove la lava incide la neve e ingaggia lotte col ghiaccio; si era immersa nel blu cristallino del mare.
Ma fu camminando su uno dei polverosi sentieri in campagna, che intuì il disegno del proprio destino: Si trattava di un luogo selvaggio dove gli ulivi si alternavano ai fichi d’india, ai mandorli, ai gelsi.
Lei si sentiva inebriata, felice come quando da bimba scartava un regalo.
Poi capì che il dono era quel giovane dal volto abbronzato che da dietro una pala spinosa la stava spiando: quegli occhi di un nero profondo spiccavano alla luce del sole così da svelarlo simile ad una pietra preziosa magicamente animata. Scoperto, si era diretto a grandi falcate verso di lei, sorrideva sfoderando il bianco intenso dei denti.
Il primo impulso era stato fuggire da quel Dio ignoto, ma ormai il destino aveva deciso, così lei aveva accettato di condividere con l’altro il proprio cammino.
Andando avanti l’odore di zagare si faceva sempre più intenso, fino a stordire. Lei procedeva con gli occhi socchiusi, tenuta dal suo nuovo, radioso sostegno ed era come volare.
Poi lui l’aveva esortata a guardare: una distesa dorata, un’infinità di forme oblunghe, gialle e lisce, erano lì a celebrare con gioia la vita.
Fu un momento di estasi pura.
Entusiasti e felici si erano immersi nella semplicità straordinaria di un mondo incontaminato, correndo sul terreno sabbioso, bagnandosi i piedi per acciuffare viscide serpi in pozze di acqua stagnante.
Avevano dato sollievo alla fame divorando fichi d’india maturi, piluccando le more ancora un po’ acerbe; dissetandosi con quei gialli limoni la cui scorza sembrava loro un giulebbe.
Tutto adesso era chiaro: la vera vita era quella, l’altra era stato soltanto un incubo dentro un sonno agitato.
Poi però l’amica l’aveva cercata:
–Il più piccolo ha un po’ di febbre, forse per colpa di una frescata. Sai, ai giardini ha sudato, ma ora è qui nella sua cameretta, al sicuro; dalla finestra entra un raggio di sole quasi per tutto il mattino, così lui è contento anche chiuso qua dentro e poi, quando si fa un po’ più scuro, guarda tanta TV…
La donna si era sentita salire un groppo alla gola: come aveva potuto evadere dai suoi doveri di madre!?
Scivolò silenziosa dalle braccia possenti che l’avevano accolta e salvata
Volò alta verso il proprio nido usuale e riprese il suo ruolo.
Quel Dio sfavillante che per uno spazio irrisorio di tempo l’aveva resa felice, le era rimasto ben saldo nel cuore.
La vita riprese il corso di sempre fra l’affetto consolatorio dei figli, l’egoismo sfrontato del vecchio compagno di vita e il proprio essere donna depressa, ferita, ma altera e determinata a non cedere mai ai tentativi meschini di chi, fingendosi pentito, avrebbe voluto tornare con lei.
Era rimasto un solo fattore ad alzare il morale: quel giardino laggiù, in fondo alla strada, che talvolta era possibile scorgere sporgendosi dalla finestra della cucina. Era una macchia verde stonante con tutto il grigio della periferia cittadina; da quel giardino emanava ogni tanto un profumo intenso di zagare che sovrastava il fetore usuale di scappamenti. Talvolta un giallo maestoso si imponeva con prepotenza.
La donna allora fuggiva di nuovo dal mondo reale e volando ad occhi socchiusi sul mondo, ritrovava l’ombra invitante del suo Dio che ancora un po’, la teneva per mano lungo i sentieri dorati, inondati dell’antico, inebriante profumo.